mercoledì 14 settembre 2011

Il paese delle mele rosse

Dante Gabriel Rossetti, Venus Verticordia

Dire come fosse arrivata lì era impensabile. Era comparsa proprio in quel punto, al centro del nulla, in mezzo al campo. Sapeva che stava sognando e nei sogni non è bene chiedersi da dove si arriva.
Non sapeva chi era. Forse era bionda forse era mora. Forse era la stessa di sempre, forse un personaggio qualsiasi, senza faccia e senza gambe. Le gambe erano liquide, vaporose, prive di consistenza. Ma nei sogni andava così.
Si guardò intorno e la sua vista spaziò lontano, sul campo ondulato di solchi. Tanti solchi nella terra come se avessero appena arato, come se tanti serpenti fossero passati strisciando, come se l’orizzonte tremolasse. La terra era corposa, di un solido color castagna: sembrava la terra degli uliveti dei nonni. La immaginò bagnata, un terriccio morbido e fangoso in cui sprofondare. Si sentì come una pianta che voleva mettere radici.
Fu allora che le vide. Anche loro apparse all’improvviso, come se la terra avesse dato frutto per un suo desiderio. Ma sapeva che non era così che funzionava, almeno non nel mondo della veglia. Tante mele rosse, grosse mele rosse e succose, striate di venature gialle, coprivano il campo a perdita d’occhio. Nei solchi e lungo i pendii, alcune ruzzolavano e altre apparivano, e c’erano mele ovunque, mele da far venire l’acquolina in bocca.
Pensò – e fu un pensiero abbastanza sciocco – che se erano cadute da sole dovevano essere mature. Ma cadute da dove? Cadute da dove? Non c’erano alberi da cui potessero cadere. O meglio, c’erano dei noccioli, una macchia di noccioli alla sua sinistra, ma niente meli. Nessun albero che potesse produrre tutta quella frutta.
Pensò anche che quelle mele le somigliavano. Anche loro arrivavano dal nulla, anche loro senza faccia e senza gambe, così, all’improvviso, sul campo. Si chiese se ci fosse un mondo vero anche per loro, se quelle mele di sogno non fossero anche mele reali, mele che dormivano nei loro letti, sotto le loro coperte, appese a qualche ramo di un qualche melo nel mondo della veglia. E forse noi sogniamo le mele e anche le mele sognano noi.
Mosse qualche passo cadenzato sulla terra. Sentiva il suolo caldo contro le piante dei piedi. Il sole spandeva una luce arancione sul campo e sulle mele, laccandole di una sfumatura dorata. Forse era il tramonto, forse l’alba. Forse estate o forse primavera. In quella luce smaltata, il petto si acquietava e tutto sembrava possibile. Era il mondo primordiale, il mondo prima del mondo, prima dell’uomo, con quella nebbiolina d’oro tremolante e i tronchi delle querce che stillavano miele. La terra dava frutti da sola. Pensò che avrebbe voluto vivere in un mondo così, che non si sarebbe sentita mai sola, che non ci poteva sentire soli con tutta quella bellezza in cui spaziare. Voleva sprofondare nella luce fino al collo, voleva essere il campo che germogliava, essere la mela che scivolava per la collina, ruzzolando su se stessa in mille e mille giri, sempre più rossa e sempre più gialla, sempre più veloce, sempre più lontana.
Mosse qualche passo e si chinò. Era un sogno senza profumi, ma sapeva che la terra aveva un buon odore, secco e saporito. E anche le mele ne avevano uno, era tutta una dolcezza. Si chinò e raccolse un pomo e lo tenne sul palmo della mano, rosso e rotondo. Era come impugnare una piccola cosa perfetta.
La mela aveva un suo peso, ma nel sogno non c’erano pesi.
Rimase a contemplarla così e a chiedersi che cosa significasse. Nel mondo della veglia ad ogni simbolo corrispondeva un significato: le era sempre stato insegnato che bisognava leggere fra le righe e cercare le figure retoriche e interpretare i passi. Ma lì non c’era niente da interpretare. Quel campo era solo un campo, quella mela soltanto una mela. Non era il peccato, non era la distruzione, non era la perfezione che uccide o la possibilità da cogliere, non era il gusto del proibito, il sapore del macabro, il cedimento di Biancaneve. Quella mela non era che se stessa e non voleva essere letta in alcun modo. Ma se io interpreto la mela, anche la mela sta interpretando me? E io cosa significo per lei? Anch’io sono per lei il pericolo, anch’io sono  per lei la notte nera: io la mordo, io la incido coi denti e intacco la sua perfezione. Io sono il nemico della mela proprio come la mela è il mio nemico.
Ma adesso, su questo campo, noi ci stiamo riconciliando, perché io non interpreto lei e lei non interpreta me, ma siamo un simbolo unico, un simbolo insieme, un tutt’uno che vuol dire soltanto “possibile”.
 Ed ecco che la mela le parlò, come se l’avesse evocata dalla profondità del suo torsolo. La mela le aprì gli occhi dentro e lei vide. Vide e capì che tutte quelle mele erano lei e che lei era tutte quelle mele, perché era lei l’albero, l’albero enorme e potente e invisibile che proiettava la sua ombra sul campo. E le sue braccia erano rami, le sue mani foglie, i suoi piedi radici. Il suo viso era cerchi concentrici nel legno.
Vide e capì che niente aveva bisogno di essere interpretato perché lei viveva in tutto quel sogno e quel sogno era lei, soltanto lei, lei la mela lei il campo lei la luce. Quel sogno era vita, era un progetto per l’avvenire, era la bellezza in cui svanire quando le sarebbe mancata la forza.
Pensò che non avrebbe mai voluto aprire gli occhi, mai più, chiudere gli occhi a quella vita e riaprirli sull’abisso del nulla, il vero nulla, il vero senza-senso, il mondo vero. Il mondo in cui una mela significava peccato e cogliere una mela significava sprofondare. Rivendicava il diritto a un universo in cui a ogni simbolo corrispondessero mille altri simboli e quei mille simboli si specchiassero in altri simboli.
Poi un trillo lontano, lontano, un trillo di telefono. La mela le sfugge dal palmo e ruzzola via insieme alle altre. Tutte le mele precipitano lungo il pendio finché non ne rimane nessuna. E ritorna una persona con la faccia, una persona sveglia e disperata, di quelle che non mettono radici.

Di Chiara Pagliochini

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