sabato 29 ottobre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 10

hanging 1 by ~nangapanda

Se a distanza di anni qualcuno mi chiedesse ma cosa ci facevi all’agenzia?, credo che per un momento o due non saprei cosa rispondere. Sempre più spesso, lezione dopo lezione, mi sorprendevo a pensare che quello non fosse decisamente il mio posto. È vero, avevo i miei problemi, le mie frustrazioni, ma non avevo mai pensato seriamente al suicidio. Non ci pensavo neanche quella volta, quando, sprofondato nel divano, avevo alzato la cornetta. Sentivo, forse, il bisogno di parlare, di un orecchio comprensivo, ma niente come pistole o corde o cavalcavia mi era mai saltato per la testa. E allora, perché continuavo a restare? Perché non me n’ero chiamato fuori subito? Subito, non appena quelle parole strane e tentatrici erano uscite dalla bocca di Iris. Subito, non appena quel pagliaccio del Mishima ci aveva insegnato come sbudellarci. Perché, se non per lei? Perché, se non per loro?
Alle volte, quando mi fermavo a pensarci, tutto appariva limpido come una lastra di cristallo. Molto spesso vedevo la Morte ferma all’angolo della via ma, quando la vedevo, non era lì per me. La Morte era ovunque ed era qualsiasi cosa, ma non cercava mai me. Quando le passavo davanti, nemmeno si voltava. Io mi voltavo, invece, io mi voltavo e la sfidavo dritta negli occhi e la riconoscevo. Poteva assumere qualsiasi forma, truccarsi il viso sempre di un colore diverso e mettere una gonna ogni giorno più corta, ma io la riconoscevo, come sempre si riconosce la donna che ci piace. Ogni giorno la osservavo un po’ più a lungo, ogni giorno mi piaceva un po’ di più. Guardavo Irene, guardavo Cassandra, guardavo tutti loro nel punto più profondo e scuro degli iridi e lei era lì ammantata, imbellettata, allettante. La Morte mi piaceva ed io la corteggiavo: era lei che rifiutava me.
 E in tutto questo io non potevo fare altro che guardare, non potevo che assistere al disfacimento altrui, crogiolarmi nei tormenti di un altro. E raccontare. Io potevo raccontare. Ero l’unico che potesse farlo. E così nel mio racconto essi vivono. Quelli che la Morte ha fatto suoi vivono in me, ed io li tengo vivi come posso. È la grandiosa rivincita di uno spasimante respinto.
Vi racconterò di Eugenio, di quella sera in cui la signora Francesca spalancò la porta della sala relax con un viso da far paura, le braccia aperte come ali di cornacchia, di come Iris dovette tenerla e carezzarle a lungo i capelli e aprirle le dita pian piano, una ad una, per staccarle dalle unghie la carta di credito. Lunghe lacrime colavano di mascara e i bei capelli lisci come tessuto sembravano più flosci, più opachi che mai. Eugenio non la guardava. Stringeva il bavero della camicia con due mani, come se pensasse di strozzarsi lì per lì. Nessuno sapeva che fare, nessuno sapeva che dire.
« Farabutti! » buttava là Francesca, ogni tanto, divincolandosi dalla presa materna di Iris.
“Farabutti” ed “è colpa vostra!”, ma non era affatto colpa nostra. Non era neanche colpa di Eugenio. Non è mai colpa di nessuno.
Francesca era quel genere di donna, io credo, che non vede più in là di ciò che li si dice. Non era la donna insensibile, sofisticata che avevo immaginato. Era solo una donna con una grande fiducia nel futuro e nel potere d’acquisto, entrambi personificati dalla massiccia figura di Eugenio. Amava forse suo marito e forse si sentiva ingannata, da lui, da noi, dal commesso del negozio. Tutto era improvvisamente svanito dal suo orizzonte insieme alla banda magnetica della piccola carta di credito. Non più la cameretta del bambino. Non più la nuova Miuccia Prada. Non più il weekend nell’agriturismo in Toscana.
Irene era seduta a gambe incrociate, con la testa reclinata e i lunghi capelli che le coprivano il viso. Ci si poteva chiedere se ascoltasse o se dormisse. Mi sedetti accanto a lei senza dire una parola e restai a guardare Francesca, ancora stretta nella morsa di Iris, un po’ che si divincolava e un po’ piagnucolante.
« È una fortuna che l’abbia scoperto… » dissi, sovrappensiero.
Irene si scansò una ciocca di capelli dagli occhi, mi fissò e disse lentamente:
« Perché fortuna? »
« Beh, se lo porterà via e… »
« E cosa? Potranno divorziare, andare ognuno per la sua strada eccetera eccetera? »
« Possono trovare una soluzione insieme. »
« Possono essere infelici insieme. »
« Sempre meglio che un’infelice e un morto. »
« A me pare più brutta l’altra, due infelici. »
« Due morti come ti pare? »
« Come Romeo e Giulietta. »
La guardai stranito e mi accorsi che sorrideva, ed era così bizzarro, perché sorrideva come se trovasse tutto molto divertente. Ma era impossibile capire se scherzasse. Era sempre impossibile capire quando scherzava.
E in tutto questo Eugenio era solo, solo come il cerchio illuminato su un palcoscenico, con l’attore che tace. Ognuno di noi era concentrato sui suoi gesti, ognuno con la coda dell’occhio lo osservava, ma lui non faceva niente. Era lì, immobile, le dita ancora congestionate sul colletto, con l’aria di stare per commettere qualcosa di terribile o tremendamente importante, che pure sempre rimandava. Quando si mosse, i nostri occhi lo seguirono come tante formiche. Si mosse e batté con la grossa mano pelosa sulla spalla di Iris. Le batté la spalla e Iris si staccò da sua moglie e fece due passi indietro. Francesca si asciugò gli occhi rossi come ceralacca e guardò in su attraverso la frangia. Eugenio schiacciò la MasterCard con la suola di una scarpa. Si abbracciarono.
Nessuno di noi sentì cosa si dissero, perché restarono così abbracciati per qualche minuto. Tutti noi immaginammo qualcosa. Io mi immaginai che dicessero così:
« Non abbiamo più un centesimo. »
« Non andremo più da nessuna parte. »
« Dobbiamo vendere la casa. »
« Ma dopo… »
« Tu prendi l’aereo, vai da tua madre a Caracas. »
« È morta. »
« Così avrai la casa tutta per te. »
« E tu che farai? »
« Io morrò. »
« E io che farò? »
« Tu sposerai uno più ricco. »
« Ma io amo te. »
« Questo non è importante. Non si muore di roba così. »
Non sapevo niente di loro, né cosa ci fosse nel testamento di Eugenio, né quanto cospicuo fosse il loro debito, né se Francesca avesse parenti a Caracas, ma in qualche modo sentii che era questo che si dissero. Questo, o qualcosa di molto vicino, perché Eugenio si impiccò la settimana seguente e noi lo guardammo penzolare oltre il vetro smerigliato, insolitamente composto e lindo, impeccabile nel suo completo di cotone. Francesca non la vedemmo più. Non sapemmo se fosse partita, ma non venne mai, e non era al funerale. Noi invece c’eravamo tutti, e c’era la polizia, e fecero un sacco di domande, e Iris rispose che non ne sapeva niente, che era in cura da loro, certo, ma che… Non l’avevano curato, non si può curare tutti. Ma è sicura che… ? Plagio, ma vogliamo scherzare! Certo che no, confermammo tutti. E c’erano tanti testimoni a favore e nessuno contrario, nemmeno Francesca, e Iris disse, alzando le spalle:
« Finisce sempre così. »
Finisce così la storia di Eugenio, con noi che lo guardiamo oltre il vetro smerigliato, perché a questi eventi si assiste tutti assieme. Finisce con me che vomito nel wc e tirò la catena che disperde tutto il giallo. Finisce con Irene che mi stringe una spalla e una lacrima, una sola, le scende da una parte e dice:
« È andata. »
Finisce così la storia di Eugenio e nessuno ne sentirà più parlare, perché Iris brucia le carte dopo ogni trattamento, brucia perché nessuno arrivi fino a lei. Finisce così la storia di Eugenio, ma ho come il sospetto che le storie non finiscano, se resta qualcuno a raccontare.

Di Chiara Pagliochini

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