martedì 1 novembre 2011

L'incontro

Nocturne No. 1 by *litka


Tu sei venuto a trovarmi.
Non so come, non so da dove, non so perché. So soltanto che d’un tratto hai smesso di essere così lontano. So soltanto che ti vado cercando per le strade, perché sei a pochi passi da me, sei venuto a trovarmi, sei qui da qualche parte. Nelle facce che incontro io misuro la tua faccia, la tua faccia pulita di bambino. Misuro col palmo l’incavo delle tue guance. Sento già ruvido sotto i polpastrelli.
Compongo il tuo numero dal cellulare, sperando di incrociarti all’angolo della via. Compongo il tuo numero e lo lascio squillare. Questi tum-tum cupi sono l’unico spazio tra la mia bocca e la tua. La mia bocca coi labbri che tremano. La tua bocca con le labbra tutte viola. Tu mi rispondi, ed è la prima volta che ci parliamo. Ho sempre pensato che sarebbe stato così, io coi labbri tutti in foglia e tu con la bocca viola e la voce ubriaca. Sei qui, ubriaco, da qualche parte, e io vado cercandoti per le strade, misurando il tuo volto su volti di sogno.
Tu fai il nome di un locale, il nome di un locale che conosco. Io parlo in modo impeccabile, con tutti gli infiniti ai posti giusti. Forse non sai neanche chi sono. Forse non sai che questa è la mia voce. Ma ci stiamo parlando, ci stiamo cercando, perché tu sei là fuori e hai bisogno di me.
C’è un rumore indistinto all’altro capo, e la tua voce si perde dentro le spire di una conchiglia. Qualcuno ti strappa di mano il telefono ed è una voce di donna, una voce frignante di femmina. Le urlo che se ne vada, che mi separa dalla tua bocca, le urlo che ti ridia il telefono perché la odio.
Ma tu mi hai già detto il nome del locale. Tu l’hai già detto ed io sto arrivando. E ogni passo sono più vicina alla tua faccia, alle tue labbra, alle tue guance. Hai smesso di essere così lontano.
Quando arrivo è già notte e le luci della città sfumano in un blu crepuscolare, lattiginoso e pulsante. Ti vedo là seduto sul ciglio della strada, sulla costa folta d’erba, con la testa fra i palmi. La tua faccia è grigia come la faccia di un cadavere, cinerina nella notte verdeblu. I tuoi occhi sono limpidi come fondi di bicchieri. La tua fronte trasuda madreperla sotto la luna.
Io mi avvicino e misuro la mano sulla tua guancia, che s’incastra così bene. Tu sprofondi nell’erba coi ginocchi e la tua ombra si stampa sulla riva. Ti siede accanto una ragazza senza faccia, quella che ti strappava il telefono di mano. Io le grido che se ne vada e lei ride come se avesse fatto chissà che. Ti sei ubriacato con lei, sono sicura. Ti sei ubriacato per lei e mentre tu vomitavi lei non era lì a reggerti la testa. Non è una di quelle che reggono la testa. È una di quelle che restano al tavolo a ridere con bocche di pasta sfoglia. Ma tu hai il capo fra i palmi e non la vedi. Tu non ricordi neanche che è con te. Io le grido che se ne vada e il mio grido è una cascata di scatole di cartone.
La guardo allontanarsi lungo la strada, sottile contro i dorsi neri delle colline. So che non esiste più, e tiro un sospiro di sollievo.
E la tua guancia si appoggia nel palmo della mia mano come marmellata nel cavo di un cucchiaio. Alzi la testa e mi sorridi. Mi sorridi, mi riconosci. È la prima volta che ci vediamo, ma è come se non avessimo mai smesso di guardarci, siamo come nelle foto, fissi in quest’immobile penombra come figurine stampate. Tu mi sorridi e io ti bacio la guancia, ed è una grande luce in un grande buio, un grande calore in un gran freddo. Mi siedo nell’erba accanto a te e ti cingo la schiena con un braccio, stringendo il mio fianco contro il tuo, come se fossimo sposati da cinquant’anni. Tu ti riposi contro di me ed io ti faccio da scudo contro il mondo.
Non so perché tu sia venuto. Non so perché io sono qui. Non so dove ci siamo incontrati né chi siamo. So soltanto che volevo questo fianco contro il mio, volevo reggerti la testa quando sboccavi, volevo detergerti la fronte e asciugare l’angolo molle della bocca. So solo che non vorrei essere in altro luogo che questo, e forse anche tu, e forse anche tu.
Non parliamo. Non parliamo perché i nostri fianchi e le nostre guance si parlano pelle a pelle. Niente più stupide parole, stupide carole, stupide carte, niente più.
Rialzi la testa e premi il tuo mento contro il mio e mi baci una due tre quattro volte, uno due tre quattro baci a stampo come i bambini alle scuole elementari. Ma non importa, non importa, perché noi sappiamo che cosa voglia dire. Noi sappiamo che cosa voglia dire sedere fianco a fianco in questo mondo di incubo.

 Mi sveglio in questo lato del letto. Lo so che i tuoi baci erano un conto alla rovescia. Lo so che se allungo le mani non ci trovo niente. Lo so che questo palmo è solo il cavo di un cucchiaio vuoto e questo fianco è buono per appendere i cappotti. Tu non siedi sulla riva e non vieni mai. E io non ti trovo. E noi non ci troviamo. E sono mille, mille le voci frignanti di donna che separano la tua bocca dalla mia bocca, il tuo orecchio dal mio orecchio. Divide il nostro incontro uno strato di materassi di gommapiuma. Mai ci incontreremo e mai ci guarderemo negli occhi e non c’è niente non una sola cosa che si possa fare per scambiare il sogno con la realtà. Per rovesciare la clessidra. La clessidra è incollata al tavolo. Mi sveglio in questo lato del letto, e ho qualche lacrima da versare che poi nessuno asciugherà.

Di Chiara Pagliochini

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