giovedì 29 dicembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap. 15

Wine Glass with Flowers by ~Lydia888

Io so che voi volete sapere. Solo, non so se ho tanta voglia di raccontarlo. E anche se gli psicologi dicono sempre che non fa bene tenersi tutto dentro e pure Iris lo diceva, io non lo so lo stesso. Se è meglio che le cose dolorose rimangano dentro. Se è giusto invece che escano fuori.
Con qualcuno ne ho parlato. Chi mi conosce bene lo sa. Nel nuovo appartamento abbiamo fatto installare una doccia anziché la vasca e comunque stento ogni volta che poggio piede sulle piastrelle. La ceramica bianca mi è odiosa. D’estate non si va al mare e i telefilm in cui c’è qualche naufragio non li guardo. Eviterei di bere, se potessi. Ma pure dicono che non si può.
Dicono anche che passerà. Piano piano, e passerà. In fondo non è stata una cosa così importante. Non una per la quale ci si debba dannare la vita, o togliersela. No, in fondo dicono bene loro: è stata una cosa da niente, passerà.
So che tutto questo è accaduto dopo il funerale di Eugenio. Più ci penso, più quel funerale mi sembra una puntina da disegno piantata sulla mia linea della vita. Tutto si riduce a due semplici dimensioni, quello che era “prima” del funerale, quello che è stato “dopo”. È tenendo presente questa puntina che riesco a collocare temporalmente tutti gli eventi. Se non l’avessi, se solo per un attimo dimenticassi questa cosa del “prima” e del “dopo”, io sono sicuro che uscirei pazzo. Non saprei più incollare le conversazioni dalla parte giusta. Tutte le sue frasi si sparpaglierebbero come farfalle di zucchero. Quindi, lasciamo che il funerale sia il nostro spartiacque. E vediamo quel che è successo “dopo”.
Quello che voi volete sapere e che io non so se ho voglia di raccontarvi è successo sicuramente “dopo”. Una, due settimane dopo? Non ricordo la data precisa, e neanche voglio ricordarla.
So solo che la serata era cominciata un po’ prima del solito. Che avevo portato Irene fuori a cena. Aveva detto, “non sono mai stata in un ristorante!”, ed io avevo pensato ai ristoranti quelli della tv, quelli con dei piatti grandi e dei pasti piccoli al centro, mucchietti di uno strano colore, decorati con ghirigori di spezie e pigne e cristalli di caramello. Neanche io ero mai stato in un posto simile.
« Vogliamo andare in un ristorante elegante? » domandai.
« Ma io… »
« Per una volta che andiamo fuori a cena non mi aspetto certo che paghi tu. E poi ho preso la tredicesima. »
« Ma ci vede la gente. »
« Quindi? »
« Non lo so. Non hai mai pensato che è strano? »
« Strano che ho una figlia così carina che porto fuori a cena? »
Irene fece un sorriso buffo e mi tirò contro un maglione.
« Allora esci » disse « che mi devo cambiare. »
Io uscii dalla stanza e scesi in cucina. Marika era seduta davanti alla tv. Sono certo che fosse una brava persona e anche una buona per viverci assieme. Non si faceva troppi problemi, non faceva domande e non era molto simpatetica. Però ogni tanto qualche risposta simpatica gliela tiravi fuori, a volerci provare. Anzi, io ci parlavo abbastanza bene. Era molto più facile che parlare con Irene. Anche se non ricordo una sola cosa che abbia detto.
Credo di aver fatto un pallido tentativo di invitarla a cena con noi. Molto pallido, a dire il vero, e neanche reiterato. Non ricordo cosa rispose, ma in un modo o nell’altro declinò l’invito. Altrimenti l’avrei ricordata che cenava con noi. Invece a cena con noi non c’era.
Quando sentii che Irene scendeva le scale e mentre aspettavo che apparisse in cucina, covavo dentro una grande eccitazione. Come se vedendola comparire potessi trovarla tutta diversa, una ragazza bellissima, elegante, ben vestita, ansiosa di uscire. I suoi passi giù per le scale erano soffi di sabbia in una clessidra. E il cuore mi faceva tum tum, tum tum. Sono sicuro di non averlo inventato. Chi mai potrebbe inventare un particolare tanto degradante?
Comunque, quando Irene apparve in cucina, era sempre Irene. La solita faccia ordinata ma piatta, non dico senza espressione, ma con quell’espressione indecifrabile e un po’ folle. Portava un vestito grigio stretto in vita, con una scollatura quadrata, in cui sembrava più magra che mai. Aveva il rossetto. Non dissi nulla, anche se stava meglio senza.
Il ristorante non era lontano dall’agenzia, così saremmo arrivati in tempo per la lezione delle nove e mezza. Non avevamo prenotato, ma trovammo posto lo stesso. Un signore molto composto e molto incravattato, con la camicia tanto bianca che faceva luce, ci accompagnò a un tavolo vicino alle finestre. Dalle finestre si vedeva la piazza davanti, con le scale del Duomo e l’ingresso del Palazzo Ducale.
Irene disse:
« Qui va bene. »
Il cameriere ci tese due menu e riprese il suo posto vicino alla porta.
Irene scorreva con l’indice i nomi e intanto si mordeva le labbra. A un certo punto abbassò il suo menu e prese a mordicchiarsi la punta di un’unghia.
« Cosa prendi? »
« Cosa prendi tu? »
Avevamo parlato insieme. Cercavamo entrambi consenso e lo cercavamo dalla persona sbagliata.
Io ero rivolto con la faccia alla porta. Il cameriere ogni tanto ci gettava un’occhiata, alzava un sopracciglio quando c’era un risolino, e Irene aveva già fatto cadere due volte il tovagliolo. Due volte lo rimandammo indietro con la supplica che non avevamo ancora deciso. Alla terza tornò e decise lui per noi.
« Lo chef consiglia… e il piatto del giorno… E quindi per lei, signorina? Certamente. Porto la carta dei vini? »
« Sì grazie » disse Irene.
« No grazie » dissi io.
« Sì o no? »
« Sì. »
« Sono subito da voi. »
Ordinammo un vino che nessuno di noi conosceva ma che era quello che costava meno. Era un vino bianco in una bottiglia verde, con su l’etichetta di una cantina sociale. Il cameriere lo stappò e ne versò una piccola quantità in ciascun bicchiere. C’erano tre bicchieri, e io certo non avrei saputo qual era quello giusto.
Arrivarono i piatti e cominciammo a mangiare. Al centro del mio c’era un anello di riso giallo. Non ricordavo se fosse riso alla zucca o riso allo zafferano e comunque non sapeva di zucca né di zafferano, ma piuttosto di anice o di finocchio. Quale lieve scaglia di tartufo era appoggiata dal lato destro del piatto, in modo che non fosse né sul riso né lontano dal riso, e io non sapevo capacitarmi se si mangiasse oppure no. Irene rideva. La vedevo dentro il bicchiere di vino che rideva.
Ecco, avevo dimenticato questo momento. Cancellato da tutto il resto, era andato perduto. Eppure adesso che lo sfoglio mi sembra così carezzevole e consolante. La faccia di Irene vista in trasparenza attraverso il vino in un bicchiere, una faccia giallo paglierino deformata dal riso, animata dalle bollicine che guizzano come tanti pesci. Io che mi allungo attraverso il tavolo con un tovagliolo in mano e dico, ti si è sbaffato il rossetto, e le passo il tovagliolo sulle labbra ancora protese e tutte rosse. E strofino finché non lo tolgo. Non so se lei sa che glielo sto togliendo. Glielo tolgo, allontano il tovagliolo e lei sorride. Sorride dentro e fuori il calice di vino bianco, come se ci fossero due Irene, l’una viva che ride, l’altra che ride nel vino e che ridendo affoga. E adesso che ci penso non è più un’immagine così consolante.

Dopo aver pagato il conto, ci incamminammo verso l’agenzia. Irene mi strattonava, mi tirava per la manica della camicia, insistendo che le facessi vedere lo scontrino. Se fosse il suo un capriccio di senso di colpa o un’altra declinazione dell’amore per la numerologia non lo seppi mai, perché come glielo tesi lei si fermò in mezzo alla strada e lo fissò per un secondo o due. Poi lo piegò in quattro parti e se lo mise in tasca. Io ve l’ho detto che era strana.
Riprese a camminare molto graziosamente, ondeggiando un po’ e dicendo cose spiritose. Il vino le aveva sciolto la lingua e colorato le guance e aveva reso il suo passo più liquido e femminile. Era bello sentirsela frusciare attorno e ridacchiare e fare quelle cose sorprendentemente ridicole che ogni tanto fanno le donne. Tipo inciampare. O impigliare un lembo della sciarpa nella cerniera della borsa. O aprire il portafoglio rovesciando una pioggia di centesimi. Oppure, come faceva Irene, camminare piano e poi fare tre saltelli e cambiare posizione da destra a sinistra, irrequieta, e ridere mentre guardava la gente passare e sbattere contro il mio fianco, poi prendermi sotto braccio, correre in avanti veloce, lasciarmi il braccio, afferrarmi la mano, lasciarla, lanciare un oh di sorpresa. Era bello vederla così vivace. Eppure era triste pensare che tutta quella vita era solo artificio, un trucco momentaneo, l’ennesima strizzata d’occhio del dio della sera.
Quando arrivammo all’agenzia, erano le nove e quaranta e tutto era pronto per la lezione. C’era una faccia nuova di donna che non rividi mai dopo di allora e che non ho trattenuto nella memoria. Iris era voltata di spalle e faceva degli schemi col pennarello su una lavagna bianca. Sui nostri banchi da scolaretti suicidi campeggiava una bacinella d’acqua.
Ascanio girellava tra i banchi con un’aria sospettosa. Ogni tanto si fermava, toccava una bacinella, sfiorava l’acqua con la punta di un dito.
« Mai piaciuta questa roba » farfugliò.
« È acqua » protestai.
« Appunto. »
A Cassandra, invece, l’acqua non interessava per niente. Non le era sfuggito che, entrando, avevo tenuto la porta aperta per Irene. Lei si era precipitata dentro con un balzello, ed era inciampata. Le ginocchia le si erano piegate ed era caduta. Tutto questo non era sfuggito a Cassandra, che stava ancora firmando il registro. Il suo sorriso, prima così studiato, si era incrinato un momento alla vista del mio gesto. Sì, doveva esser stato quel mio gesto, quella sbavatura di concitazione, l’istante in cui le ginocchia di Irene si erano piegate ed io mi ero slanciato in avanti per trattenerla, come se una molla mi facesse avvinto a lei nella caduta. Irene non se n’era accorta e si era rialzata ridendo. Ma a Cassandra non era sfuggito, e adesso me ne chiedeva il conto.
« Quindi fate coppia fissa » mi bisbigliò all’orecchio, seduta nel banco dietro di me. A intervalli regolari, la sentivo premere col piede lo schienale della mia sedia.
« No » risposi, e credo ancora che fosse la risposta giusta. Ma questo non la soddisfece.
« È ovvio che sei pazzo di lei. Il punto è se lei è pazza di te. »
« Non sono fatti tuoi. »
« Era solo per dire. »
« Non sono fatti tuoi e non è questo il punto. »
« E allora quale… ? »
« Bene, possiamo cominciare? » chiese Iris, voltandosi finalmente ad affrontarci. Il suo sguardo corse per primo a Irene, su cui si soffermò un po’ più a lungo del solito. Un cenno impercettibile del capo. Un altro cenno da parte di Irene. Anche se le vedevo solo la nuca, sapevo che stava annuendo. Ma pure non conoscevo la domanda. Quella lingua la parlavano loro sole.
Il movimento col piede di Cassandra si trasmetteva alla mia schiena e alle mani poggiate sul banco. L’acqua nella bacinella si ruppe in un’increspatura lievissima mentre Iris cominciava a parlare. Il mio sguardo la seguì un po’ oltre e si fermò sulla lavagna imbrattata. Lessi senza afferrare il senso.

Fasi:
1.  f. di sorpresa;
2.  f. di resistenza;
3.  f. di dispnea respiratoria;
4.  f. apnoica
5.  f. terminale.

Poteva significare qualsiasi cosa, eppure era chiaro che non significava niente di buono. Aveva un suono sgradevole e tecnico. Poi Cassandra spinse lo schienale più decisa e l’acqua si rovesciò dalla bacinella, scorrendo in rivoli giù dal banco. Mi alzai di scatto per evitare di bagnarmi e nel movimento pure la bacinella cadde, rotolando sul pavimento con un suono di plastica. Mi ero giusto voltato per aggredire Cassandra quando la voce di Iris sillabò lentamente:
« E lei, signor Air, ha rovesciato tutta l’acqua prima anche che cominciassimo ad affogare. »

Di Chiara Pagliochini

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