venerdì 2 dicembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.14

Abbey in the Oakwood, C.D. Friedrich

*** Seconda parte ***

Tutto questo accadeva la notte in cui morì Eugenio, quando Irene mi trovò che vomitavo nel bagno. Occorre fare un po’ d’ordine, se vogliamo andare avanti. Ebbene, tutto questo accadeva quella sera e fu la sera più lunga della mia vita, anche se fu una sera sola. Di quella sera ricordo forse ogni minuto ed ogni frase e fors’anche ogni smorfia del mio viso e del suo. Occupa così tanto spazio nella mia testa che fatico a farci entrare tutto il resto. Ma il resto ci deve entrare, ce lo devo comprimere, il resto va raccontato, com’è giusto che sia. Ci sono cose che sono perfette per un istante, così perfette che le vorresti inscatolare e metter via. Col tempo, coi momenti non si può. Arriva sempre un dopo che li rovina. E noi pure quel dopo dobbiamo raccontare.
Così ci ritrovammo tutti al funerale di Eugenio, sei goffi sconosciuti, né parenti né amici: Sca, Cassandra, Ida, Iris, Irene, io. Che ai funerali vestano tutti di nero è ormai cosa superata, c’è gente vestita di grigio e di marrone e persino chi esce di casa senza capire di che colore sia vestito. Che ai funerali piova sempre è un’invenzione dei romanzi, grandi ombrelli neri che spalancano la bocca al cielo. Ma, che ci crediate o meno, al funerale di Eugenio vestivano tutti di nero e per giunta pioveva. Eravamo infilati in una matassa di stereotipi.
Irene era quasi carina, così sottile e lugubre, con i capelli tirati su e un paio di orecchini di perla. Cassandra era alta e matronale, con la bocca che tremava. Sca si era tagliato i capelli e quando lo vedemmo arrivare, sotto l’ombrello, nessuno lo riconobbe. Lo presi da una parte e gli passai una mano sulla faccia, tanto per capire se era davvero lui. Aveva tutte le sopracciglia e tutti gli occhi e il naso liscio e gli angoli della bocca completamente anonimi.
« Che combini? Manco ti riconoscevo » gli dissi, e gli strinsi le guance in un moto d’affetto infantile. Sembrava un ragazzetto molto sperduto, senza i capelli davanti agli occhi, senza la frangia, senza le sue spillette.
« Ho rotto col mio gruppo » spiegò, alzando le spalle e guardandomi dritto negli occhi, e per la prima volta vidi che aveva gli occhi verdi « Non ero abbastanza emo per loro. »
« Ma scherzi. Sono loro che non capiscono. »
Sca sorrise. E disse che da oggi potevo chiamarlo Ascanio, che poi era il suo nome. Gli altri lo avevano messo con le spalle al muro, raccontò. O noi o loro, gli avevano detto. E lui, tra un gruppo di veri suicidi e un altro gruppo di suicidi per finta, aveva scelto il primo, si capisce. Lui era emo fino al midollo, era il più emo di tutti loro.
Eravamo di fronte alla chiesa, sotto gli ombrelli. Cassandra infilava e sfilava il piede da una scarpa col tacco, in rigorosa vernice nera. Di tanto in tanto mi gettava un’occhiata, che nelle sue intenzioni voleva essere lasciva, e s’inumidiva lentamente le labbra, col sadico piacere di riuscire ridicola. Irene non poteva guardarla: appena si voltava un attimo e l’occhio le cadeva sulla scarpa o sulla bocca, il viso le si tendeva in uno spasmo di riso isterico, che a stento riusciva a trattenere. Io vedevo il suo riso e allora lo stesso riso si accendeva in me. Ridevamo e ridere non potevamo. Ma già ridere insieme era per noi una cosa così grande.
Poi il carro funebre col tergicristalli azionato risalì il vialetto di breccia del cimitero, sfilando tra i cipressi scuri e spelacchiati. La gente fece ala attorno. Quattro uomini si issarono la cassa sulle spalle, una cassa d’un legno rosato, forse ciliegio, e si affrettarono a entrare dalla porta della chiesa. L’acqua scorreva sulle loro facce e sulle loro giacche e cravatte ben spolverate. La folla li seguì e si dissipò. Noi entrammo per ultimi, con Iris che ci incalzava da dietro. La chiesa era piccola e gremita di fedeli, non c’era più posto a sedere sulle panche. Così restammo in piedi, tutti vicini a fianco dell’acquasantiera. La cassa adesso era per terra, davanti all’altare, con sopra una corolla di gigli bianchi. C’era odore di cera e di legno vecchio e si sentiva parlottare.
Io guardavo Iris, il volto duro come scavato nel granito. Guardavo Iris, e mi chiedevo cosa sentisse. Era sicura di sé, era solida e severa e dietro la maschera granitica non c’era nulla che desse mostra che soffriva. Neanche una ruga di piccolo rimorso. Non sapevo cosa pensare di lei, e questo forse era un bene, perché se avessi pensato a lei avrei dovuto pensare anche a me stesso, a me che stavo dietro il vetro smerigliato e avevo davanti agli occhi Eugenio che penzolava, eppure non avevo mosso un dito. Eravamo entrambi complici di un delitto e una sola condanna ci faceva uniti. Eravamo tutti colpevoli e tutti eravamo innocenti. Dov’è l’innocenza e dove il danno quando qualunque sforzo tu faccia non riusciresti a salvare una vita? Dove l’innocenza e dove il danno, quando anche a sforzarti non riusciresti a riportarlo sui suoi passi? E se lo aiuti, sei un salvatore o un assassino? E se lui ti chiede una corda e tu gli metti quella corda in mano, hai fatto o non hai fatto il tuo dovere? Bisogna prendere così tutto alla lettera? E com’è possibile saperlo?
Adesso che Eugenio era composto nella bara, una risposta possibile non c’era. Sperai che lo avessero vestito di un completo nuovo, nero, con una bella cravatta arancione. Sembrava un uomo che stesse bene in arancione. Chissà se l’aveva vestito Francesca. Chissà dov’era Francesca. Chissà se piangeva Francesca. Chissà se ci odiava o se pregava per noi, o forse faceva tutte e due le cose.
Il sacerdote fece un gesto e tutti smisero di parlare. Chi aveva il cappello lo tolse. Chi era seduto si alzò. Partì una musica dall’organo che andò sparpagliandosi tra le colonne.
Mi sono sempre sorpreso che ai funerali non pianga quasi mai nessuno. Uno viene e si aspetta come minimo un’esibizione, fazzoletti e singhiozzi e gente che tira su col naso. Uno si aspetta che il dolore sieda sulle ginocchia delle signore e si diverta a pizzicar loro le guance. Ricordo che da bambino accompagnai la mamma al funerale di un nostro vicino. Era un uomo gentile, ma io non ci parlavo mai e dunque non lo conoscevo per niente. Ma poi eravamo lì, al suo funerale, e tutti sembravano tristi ma non piangeva nessuno. E io volevo piangere, perché mi sembrava brutto che non piangesse nessuno, così mi sforzai e pensai a tutte le cose orribili che mi riuscì di trovare, pensai di morire anch’io, pensai di non pensare, pensai che io morivo e nessuno piangeva per me, e mi sforzai finché non mi vennero gli occhi lucidi. E in quel momento mi dissi, “ecco, sto piangendo, sono il più buono di tutti quanti”, io che con quell’uomo non ci avevo parlato mai.
Iris non piangeva. Cassandra non piangeva. Ascanio non piangeva. Ida non piangeva. Irene non piangeva. Io pensai a Irene che moriva, e piansi. Pensai al suo corpo così magro disteso in una bara così grande, le mani incrociate sul petto, le labbra secche. Pensai alle palpebre chiuse, all’espressione rasserenata con cui aveva detto “è così bello”. E quella musica, quella gente che non piangeva era tutta lì per lei. Eravamo al funerale di Eugenio, ma eravamo al nostro funerale.
Ma perché accadeva tutto questo? Ma che diritto avevamo? Perché affrettare un evento che sarebbe giunto comunque? Perché non trovare il coraggio di vivere tutti i nostri giorni? Per quanto brutali e osceni e volgari e inutili fossero, perché non trovare il coraggio di vivere? Che dignità c’era nel morire? E perché, se nel morire non c’era dignità, il volto di Iris era così severo e sicuro di essere nel giusto? Dov’era il giusto? Perché non scrivono “giusto” e “sbagliato” sotto le cose, così possiamo capirle, così possiamo accettare? Io ero troppo stupido per decidere la via. Io mi facevo sempre trascinare. E stavo lì sballottato da venti contrari, avevo voglia di morire e non l’avevo per niente.
Il sacerdote disse delle cose. Adesso non le ricordo, anche se credo siano sempre le stesse. Ci lascia. Perdono. Carne. Resurrezione dei corpi. Pentimento. Dolore. Giovane. Costernazione. Mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.
Mi avvicinai all’acquasantiera, intinsi un dito e me lo passai sulla fronte in una figura di croce. Una gocciolina mi scese lungo il sopracciglio e lungo il naso. Mi vidi riflesso tremulo nell’acquasanta. Mi sentivo come uno allo specchio che non si riconosce.
Irene mi poggiò una mano sulla spalla e mi chiese se avevo voglia di camminare. Feci di sì con la testa. Uscimmo dalla chiesa e prendemmo a destra, lungo una fila di vecchie lapidi. Non c’era nulla di strano né di macabro nel nostro passeggiare: eravamo come una qualunque famiglia che onora i propri morti. Ogni tanto Irene si fermava e faceva un commento, “com’è morto giovane” o “guarda, è morto il giorno di Natale”. Cose del genere, senza nessuna importanza. Mi parlò dei suoi nonni. Mi parlò della bisnonna che era morta l’anno prima, ed era una giornata di sole tanto bella. Mi parlò del nonno che diceva sempre che stava male. E nel parlare sorrideva come quando si sfoglia una collezione di figurine, perché i nostri morti sono sempre vivi, anche se non ci sono più. Continuava a piovere, e l’acqua lavava le croci e le incisioni, evidenziando le macchie di muschio e scorrendo lungo i soliti percorsi. Tutto era umido e ammuffito e verde. C’era odore di funghi.
Quando la processione uscì dalla chiesa, noi non eravamo ancora rientrati. Guardammo scorrere il lento corteo con la bara in testa, e stavolta ci furono molti fazzoletti. I mariti tenevano aperti gli ombrelli per le signore. Le signore si asciugavano gli occhi. Il sacerdote camminava veloce salmodiando. Il coro cantava.
Ida e Iris si staccarono dalla coda e vennero verso di noi.
« Ce ne andiamo, che dite? » chiese Iris, molto seria.
« Non c’è Francesca » osservai.
« No. »
Avrei voluto chiedere se non si sentiva in colpa neanche un po’, se proprio non aveva nessun peso sulla coscienza, ma non potevo, non potevo chiederlo così, davanti a Irene.
« Voi che dite, adesso starà bene? » domandò Cassandra, raggiungendoci poco dopo. Era una domanda così cretina che nessuno volle rispondere.
Eppure io continuai a pensarci, e ci pensai mentre uscivo dal cimitero, ci pensai mentre Irene faceva scivolare il braccio dentro il mio, così, senza dire una parola, ci pensai mentre aprivo la macchina, ci pensai mentre entravo in casa, mentre cucinavo per me e Ryanair. Ci pensai e ci pensai e più ci pensavo e più dimenticavo Eugenio, perché dentro quella bara per me non c’era Eugenio. C’era Irene. E io volevo sapere se Irene stava bene.
Così la Morte si impadronì di me, così affermò la sua volontà di possesso. Scivolò dentro di me col braccio di Irene che s’incastrava nel mio. Me la trasmise come una malattia. E mentre mi stavo innamorando di lei, anch’io cominciai un po’ a morire.
Di Chiara Pagliochini

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