venerdì 30 dicembre 2011

L'agenzia dei suicidi. Cap.16

John Everett Millais (book illustration)

« E lei, signor Air, ha rovesciato tutta l’acqua prima anche che cominciassimo ad affogare. »
Mi fermai un momento, raccolsi la bacinella, la riappoggiai sul banco. Sedetti lentamente al mio posto.
« Affogare? » domandai. Non domandavo mai niente, ma per un secondo quell’intonazione, quella certa cadenza e anche una ruga sulla fronte di Iris erano sembrati molto importanti. Lei dischiuse le labbra per formulare una risposta, le richiuse, volse la testa verso Irene, poi si volse alla lavagna e la indicò con un gesto del braccio.
« Annegamento » disse, in un tono in qualche modo solenne « È la lezione del giorno. »
« Ah. »
Ci pensai su un secondo.
« Devo far riempire di nuovo la bacinella? » chiesi.
« No, non c’è bisogno. Era tutta scenografia. »
« Certo. »
Iris dischiuse di nuovo le sue labbra di pesce rosso e si strinse nelle spalle.
« Beh, il signor Air ci ha tolto l’effetto sorpresa, quindi penso che saremo piuttosto diretti. Che dite? Ecco, » di nuovo un gesto ampio del braccio « se volete guardare la lavagna. »
Guardai ancora la lavagna.

Fasi:

1. f. di sorpresa;
      2. f. di resistenza;
3. f. di dispnea respiratoria;
4. f. apnoica
5. f. terminale.

« Ho pensato che sarebbe stato carino dotarvi di qualche nozioncina scientifica. Certo, non è che serva a molto, ma in fin dei conti male non fa. E se anche non ci ripenserete mentre state affogando, è in qualche modo positivo che sappiate quel che andate ad affrontare. No? Ecco, io non sono un’esperta. Insomma, non mi piace tanto neanche la piscina. Però possiamo provare a capire come funziona. Se vorrete lasciare un po’ di spazio all’immaginazione, sarà tutto più divertente. Cassandra, non sia tesa! »
Sentii Cassandra che si muoveva nel banco.
« Un po’ d’immaginazione, ecco. Non lo so, provate a mettere una mano nella bacinella. Lei, signor Air, può provare a chiudere gli occhi. Anzi, chiudiamo tutti gli occhi. Non lo so. Fate come vi pare. »
Chiusi gli occhi. Con le palpebre abbassate, tastai la superficie di legno del banco sotto di me. I palmi aderirono alle chiazze bagnate. I polpastrelli cercarono il freddo dell’acqua e lì ristettero a sguazzare. Mi sentivo stranamente debole, vulnerabile, come se qualsiasi cosa in quella cecità potesse piombarmi addosso e farmi sobbalzare. Nel buio sentivo più forti i sospiri, gli spifferi, gli aggiustamenti pur minimi; le inflessioni di ogni voce, di ogni frase erano l’unica cosa esistente.
« Quando si cade in acqua, specie se accidentalmente, la nostra prima reazione è di sorpresa. Il corpo agisce contro il proprio interesse e si produce in un atto inspiratorio riflesso. Vale a dire che prendiamo una boccata d’aria. Cioè prendiamo una boccata d’acqua. »
Eccolo, il volo, il volo e la caduta. Il volo era bello, ma la caduta non lo è. La caduta è impatto contro una superficie fredda e dura che si frange sotto di noi come se fosse di vetro. E quell’elemento che dovrebbe rigenerarci ci ferisce. Noi cerchiamo la vita e respiriamo la morte, e il sorso di quel che ci può salvare è invero il sorso che ci distrugge. Lo senti che brucia la gola. Lo senti che si infila dentro come un serpente. Lo senti che penetra e penetra e penetra dove non deve andare.
« Ma prontamente il corpo realizza che questo non è bene e reagisce d’insisto. Si chiama “fase di resistenza”. Alle prime boccate d’acqua, la glottide si solleva in uno spasmo serrato, impedendo al liquido di penetrare nei polmoni. Intanto voi vi agitate e cercate di riemergere. »
La glottide fa clack. È strano, non l’avevo mai avvertita prima. Non avevo neanche mai pensato di averne una. Ma adesso capisco che è proprio bello avere una glottide. La senti scattare come una porticina, senti che tutto si tende nella gola per tenere l’acqua dall’altra parte. È come un cancello. È come una paratia. E noi siamo il Titanic che non vuole affondare, siamo gli strenui cadaveri che si dimenano nei loro estremi gesti concitati. Siamo tante formiche che nuotano e scalciano quando tutto il formicaio è affogato.
« Il problema è che è possibile trattenere il respiro solo fino a un certo punto. Poi la concentrazione di anidride carbonica nel sangue aumenta e il cervello ha bisogno di reintrodurre ossigeno. Non c’è niente da fare, la glottide si rilascia. E siamo alla fase di dispnea respiratoria. Comincia una serie affannosa di respirazioni. Siete sott’acqua. L’acqua entra in grandi quantità nello stomaco e nei polmoni. »
La glottide non è una paratia e non è neanche una porticina, che quando le chiudi poi sai che non si riapriranno. No, la glottide è una stupida corda d’arco, che si è tesa e si è tesa per scagliare la sua freccia. Ma quando l’ha scagliata non c’è più modo di riportarla indietro. E l’arco s’è spezzato in due nella tensione.
Un topolino bianco in un catino di zinco graffiava le pareti con le zampette spuntate. E l’acqua mulinava intorno al suo codino. Graffiava, graffiava, ma non riusciva a riemergere. E più le zampette grattavano, più a fondo si spingeva nel catino. Non era facile mantenersi concentrati con l’acqua che riempiva a fiotti i polmoni. L’acqua saliva come un’onda di marea, come se quei polmoni fossero tazze livellate e una tacca, due tacche, tre tacche, l’acqua ci veniva versata dentro dall’alto e quelli cominciavano a traboccare.
« Siamo verso la fine. Perdete conoscenza, i riflessi sono aboliti. Si arresta il respiro. Siete in uno stato di coma profondo. »
Nel buio non c’è niente. Non c’è guerra e non c’è pace. Nel buio sembra di vedere una luce madreperlacea che pulsa, ma pulsa lontana lontana e non si avvicina neanche un po’. Nella luce di madreperla c’è la testa di Irene. Nella testa di Irene c’è la testa di Ofelia e se anche tu non la vedi sai che porta un vestito bianco e che tu sei pesante, sempre più pesante, forse è il vestito che si bagna, è un vestito troppo pesante. E intorno c’è tanto verde e tra le dita ci sono i fiori. Stupidi fiori, stupidi fiori che più li ghermisco e più mi sfuggono, più li ghermisco e più mi sfuggono e tutto è lontano, troppo lontano, troppo pesante, troppo bianco, troppo nero. Nell’assenza del colore c’è il colore del tutto. E la luce la luce la luce…
« Boccheggiate per l’ultima volta. Il cuore si arresta. »
Il cuore si arresta, si arresta, si arresta. Come quando dite, ho avuto un colpo al cuore. Ma non era un colpo, era solo un sobbalzo, ché non potrebbe sobbalzare dopo che s’è arrestato. Un cuore non è una glottide, sennò avrebbero lo stesso nome. Un cuore è un interruttore che ha un pulsante solo e non si riaccende se tu lo premi due volte. Ma premilo due volte. Ma premilo due volte. Premilo due volte che, se non lo premi adesso, poi lo sai - non si riaccende più.  

Un corpo affoga più velocemente in acqua dolce che in acqua salata. Dai tre ai cinque minuti in acqua dolce, tra i sei e i sette in acqua salata. Alcuni dicono che affogare in acqua salata sia più doloroso che affogare in acqua dolce, ma nessuno è mai affogato in successione in entrambe le acque per poterlo raccontare. Eppure sono sicuro che la gente preferisce l’acqua dolce. Forse perché pensano al sale che brucia gli occhi. Forse perché tutti bevono acqua minerale. Forse perché il mare è così bello da guardare, quand’è piatto e quand’è tempestoso, che a nessuno viene voglia di affogarci dentro. E poi la carcassa restituita sulla spiaggia. Ci sono i bambini che giocano coi secchielli. Sono immagini che non piacciono a nessuno.
Quando riaprimmo gli occhi, ci guardammo tutti con un certo spaesamento. Irene si voltò e mi rivolse un sorriso incerto, appena abbozzato. Col pollice le feci segno che stavo bene.
« Un quadretto molto suggestivo. Non trovi anche tu? » rimarcò Cassandra, picchiettandomi gentilmente le spalle.
Risposi di sì e poco altro. Mi sentivo scosso, frastornato. In quel buio avevo visto e conosciuto cose a cui non sapevo ancora dare forma. C’era un potere troppo grande nelle parole di Iris. La sua cantilena era monotona e cupa, senza picchi e senza valli, tutta uguale. E forse stava in questo incantesimo in cui una parola scarsamente si staccava dal fondo a conferirle quel potere arcano. Mi proiettava fuori da me stesso, in una dimensione vaga ed ombreggiata. In quel posto dove c’erano sogni. In quel posto che metteva in moto i simboli. Mi rendeva per un istante più capace di quello che ero.
Ma io ero sempre io. E ancora non capivo. E ancora non vedevo.
Iris disse:
« Bene, per stasera abbiamo finito. »
Mi alzai dal banco e mi sgranchii le gambe mentre aspettavo che Irene finisse di parlare. Iris le teneva un braccio intorno alla schiena e tutto ciò che potevo vedere erano i capelli lunghi e sciolti e la vita sottile come l’altra sua vita. Volevo trascinarla via. Volevo trascinarla a casa. Volevo che uscisse di nuovo a correre attraverso la piazza con quel passo leggero. Volevo che ridesse brilla. E invece restava lì a parlare con quella donna morta, con quella donna di morte, che le metteva un braccio intorno alla schiena. Volevo trascinarla via.
« Arriva tra un momento » disse Iris e capii che parlava con me. Le vidi camminare verso l’ufficio, il fianco dell’una contro il fianco dell’altra, l’abbraccio del demonio. Sentii il tonfo della porta che si chiudeva.
« Andate a casa assieme? » chiese Cassandra, con una leggerezza artificiosa.
« La riaccompagno. »
« Ovviamente. Fai bene. Poveretta. È sempre così sola, no? E poi è così giovane. E sono sicura che in fondo è una ragazza simpatica. »
« Falla finita. »
« Che c’è? Non si può mai fare un discorso con te? Ma tanto nessuno mi dà retta. »
Salutai Ascanio che se ne stava andando. Sui banchi le bacinelle tremolavano di una brezza invisibile, più sottile di un brivido, più corposa di una scarica elettrica. La mia piccola polla non si era ancora asciugata.
« E a me? Mi accompagni almeno alla porta? » disse Cassandra in un risolino. Vedendo che non mi muovevo, mi prese per un braccio. Io tenni il passo a malincuore. Come lo rendeva pesante quel passo, quant’era pesante, quant’era pesante. Ci sarebbero voluti giorni per arrivare fino alla porta. E quella corsa attraverso la piazza, invece, che non era durata un battito di ciglia.
Arrivato alla porta dell’ufficio, mi fermai. Cassandra mi fissò, aggrottando le sopracciglia.
« Non vorrai metterti ad origliare. »
Non potevo. Non si sentiva niente.
« E poi. Cos’è mai che vuoi sapere. »
Non era una domanda. Era un’affermazione.
Alzai gli occhi, perplesso come un bambino, e fu allora che il volto di Cassandra si illuminò. Era sconvolto. Era deformato. Il volto di una persona che abbia fatto una grande, una preziosa scoperta.
« Ma quindi non lo sai. »
Silenzio.
« Ma quindi non te l’ha detto. »
Silenzio.
« Ah, ma è straordinario. Qui lo sanno tutti. Ida proprio non sa tenere la bocca chiusa. E non ha detto niente a te? Che tipo, quell’Ida. Se fosse mia dipendente l’avrei già fatta licenziare. »
Avrei voluto strapparmi le orecchie, colarmi nei timpani dei moccoli di cera o riempirli di stoppa o di stoffa o di cotone. E avrei voluto essere cieco, cieco come un gattino di pochi giorni, che ignora la luce e il suo far male. Avrei voluto essere ovunque ma non lì, non lì, su quella soglia dell’altro mondo in cui non mi era concesso di entrare, quella soglia oltre la quale Irene non era più la “mia” Irene, ma la “loro” Irene, la seconda Irene, l’Irene del bicchiere di vino.
« Non l’hai vista com’era presa? Certo, avevamo gli occhi chiusi. Beh, io ho sbirciato un pochino. Non era un bello spettacolo. Niente affatto. Era così radiosa. Terribile, se uno ci pensa. Bisogna essere molto convinti per riderne così. »
Oggi so che Cassandra mentiva. Lo so perché sedeva dietro di me: non avrebbe potuto vederla in faccia. Nessuno aveva visto la faccia di Irene. E forse non c’era nessuna faccia da guardare. Ma in quel momento non lo pensai, in quel momento niente era più vero delle sue parole.
« È una questione di gusto, come per tutto. A te piace Irene e a Irene piace l’acqua. E d’altronde non si può biasimare. In fondo, tu oggi ci sei, domani chissà. Non ci si può fidare di voialtri. »
« Magari si sente sporca. Magari ha qualcosa da lavare. Con quella faccia da puritana. Chi lo sa. Però è interessante. Non è interessante? Un bell’annegamento. Dopo l’impiccagione, sembra una soluzione più chic. Non ti pare? Non ti pare? »
Solo allora mi accorsi del suo tono alterato, delle parole che le tremavano sulla bocca. Gli occhi erano lucidi. Aveva le guance rosse. Era spaventata.
La porta dell’ufficio si aprì. La voce di Irene tintinnò un saluto.
« Andiamo a casa? » domandò.
E intanto Cassandra camminava via. E Irene mi si avvicinava, mi stringeva il braccio, diceva:
« Che hai? »
Avevo solo voglia di vomitare.

Di Chiara Pagliochini

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