sabato 14 gennaio 2012

Arlecchino servitore di due padroni, Carlo Goldoni


“Oh bella! Ghe n’è tanti che cerca un padron, e mi ghe n’ho trovà do. Come diavol oia da far? Tutti do no li posso servir. No? E perché no? No la saria una bella cossa servirli tutti do, e guadagnar do salari, e magnar el doppio?”
Mi viene il dubbio che io sia francamente impazzita. Tre giorni fa non mi sarebbe mai passato per la testa che potessi leggere Goldoni con tanta serenità, disponibilità, persino allegria. Tre giorni fa, quando l’ho messo nella valigia, pensavo soltanto, Cristo, sarà ora di sbarazzarsi di questa roba oscena, così do l’esame al più presto e chi s’è visto s’è visto. Tre giorni fa non avrei neanche pensato che in questo breve lasso di tempo fosse possibile rivalutare la mia posizione nei confronti del teatro, dopo averlo denigrato per mesi con così vivo accanimento. Eppure, eccomi qui ad ammettere i miei errori di valutazione e la mia ignoranza. Ora, io non dico che leggere l’Arlecchino sia l’esperienza artistica più preziosa da darsi nel corso della vita. Anzi. Però è meno terribile di come uno se lo immagina.

È Goldoni a dare il via a una riforma del teatro su vasta scala, riforma che lo porterà ad assumere la forma che noi conosciamo. E l’Arlecchino si inserisce in questo progetto come il primo passo avanti, il primo compromesso con un pubblico abituato ad altre salse. Nel Sei-Settecento il teatro, almeno di un certo tipo, era stato teatro di piazza e di strada, il dominio della Commedia dell’Arte. Gli attori, coi loro abiti sbrindellati, i carrozzoni, i sipari scoloriti, i tendoni allestiti alla buona, viaggiavano coi loro canovacci di città in città, rappresentando spettacoli che molto dovevano all’improvvisazione e che si fondavano sul sistema delle maschere. Arlecchino (o Truffaldino), Pantalone, Brighella, Smeraldina, così nascono quei personaggi fissi che io tendo ad associare al Carnevale – forse perché per Carnevale, quando ero all’asilo, ci davano da ricopiare ogni anno i disegni di queste maschere tradizionali (se cerco bene, negli vecchi album, avrò almeno quattro Colombine).
Goldoni arriva col suo progetto di riforma, prende quel che può, inizia a fare altro. Perché nel suo Arlecchino, a differenza di quanto avvenuto finora, gran parte del testo è scritto e solo un poco è lasciato all’improvvisazione; perché le maschere ci sono, ma non sono più quelle di una volta: Pantalone abbandona la sua consueta avarizia per diventare un padre affezionato, Brighella passa da servitore a proprietario di locanda, Arlecchino assume una personalità, uno stampo caratteriale sconosciuto alla tipicità della maschera.
È proprio Arlecchino il centro pulsante della vicenda, l’elemento unificante, l’orditore di intrighi, il catalizzatore dell’attenzione del pubblico, col suo colorito accento misto di veneziano e bergamasco, i suoi salti, il suo appetito insaziabile. Ed è Arlecchino che seguiamo con trepidazione nel suo tentativo di servire contemporaneamente due padroni, senza che nessuno sappia dell’altro, così da non esser bastonato e mangiar per due. E alla fine di una sola giornata sarà sì stato promotore di due tentativi di suicidio e di innumerevoli frottole, ma sarà anche suo il merito di due riconciliazioni e ben tre matrimoni. Animato allo stesso tempo da furbizia e ingenuità, Arlecchino si destreggia con una briosità che a teatro farebbe (e ha fatto e fa ancora) piovere minuti di applausi.

Ma quel che più mi ha colpito di questa esperienza con l’Arlecchino non è stato il testo in sé quanto tutti i documenti contenuti nella mia edizione BUR. E adesso lasciate che io esprima amore incondizionato per queste edizioni: introduzioni curatissime, note di regia, tutti gli strumenti necessari per apprezzare un testo non soltanto nella sua singolarità, ma come elemento di un tessuto più ampio e più complesso che è la messa in scena di quel testo. Questa edizione dell’Arlecchino, in particolare, riporta il diario di un attore in occasione di un tour europeo dello spettacolo (1957, per la regia di Giorgio Strehler) e il ricordo che Strehler fa di Marcello Moretti, storico interprete di Arlecchino. Testimonianze a loro modo entrambe istruttive e toccanti che mi hanno fatto capire che il teatro non è soltanto quella porcheria che ho guardato per settimane in videocassetta, ma soprattutto è umanità, dedizione e quasi una forma altra di intendere la vita.

Di Chiara Pagliochini

Nessun commento:

Posta un commento