mercoledì 15 febbraio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap. 22

LA MORTE PER ACQUA

Phlebas il Fenicio, morto da quindici giorni,
dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
e il profitto e la perdita.
Una corrente marina gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava
passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza
procedendo nel vortice.
Gentile o Giudeo
o tu che volgi la ruota e guardi sopravvento,
considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te.

La terra desolata, T.S. Eliot


Ofelia, Hughes

Quando andai da lei, quella sera, la trovai avvolta nel pigiama, prona su una cioccolata calda. Marika grugnì un saluto e sparì in cima alle scale. Sentii la porta della sua stanza che si chiudeva.
Non ci fu bisogno di far pace, perché Irene non era arrabbiata. In questa fase della sua vita la rabbia era un sentimento per cui non c’era più posto. Ce n’era stata tanta, un tempo, così tanta che aveva pensato dovesse arrivare a consumarla, a spolparle le ossa fino a lasciare una sorgente visibile e scoperta di furore. Ma quei tempi erano andati, superati e, anche se era così giovane, le sembravano ricordi di un’altra vita.
Le domandai di condividerli con me. Offrii in cambio dei ricordi miei e lei mi offrì una cioccolata, con sopra una polvere di granelli di nocciola. Sedemmo al tavolo, sotto la luce elettrica, con la tv spenta, e cominciammo a parlare.
Più che mai in quel momento la sentivo lontana, i suoi ricordi intangibili per me quanto i miei dovevano esserlo per lei. Ma mai come in questo momento ebbi una tale occasione di capirla. Riesaminò i motivi, andando di uno in uno come un passerotto che becchettasse semi, con un tono a volte lieto e leggero e altre volte aspro come la sua voce era stata un tempo anche per me.
Cominciò da quel giorno, quando si trovò sola all’aeroporto. Non aveva permesso a nessuno di accompagnarla. Un beauty case, due valigie e un bagaglio a mano le ruspavano tra i piedi come una nidiata di cagnolini. La gente si muoveva veloce su gambe e rotelle, nuovi mostri mitologici con sguardi allampanati e occhi che si appuntavano ai tabelloni luminosi cercando di decifrarli. Sedeva immobile, trangugiando di tanto in tanto un sorso d’acqua da una bottiglietta.
Sapeva che doveva alzarsi di lì e avviarsi al check-in. Era stata così previdente, aveva un margine di anticipo così largo, e lo stava consumando tutto per uno stupido attacco di panico. Capiva adesso quanto fosse sciocco, quanto forzatamente ottimistico essere venuta sola. Sapeva che se una mano non l’avesse scrollata non avrebbe avuto la forza di alzarsi. Tappò la bottiglia, fece leva sulle gambe e provò. Si mise in piedi, raccolse la borsa, e fu allora che le ginocchia cominciarono a tremare. Così sciocca, così sciocca. Si sforzò di tornare al tabellone. Appuntò il numero del volo sull’agendina. L’aveva già fatto, lo fece di nuovo. Donne e uomini e anziani in camicie a quadri e coreani con ridicoli cappelli sfrecciavano ai due lati da destra e da sinistra, tutti così sicuri e rapidi come piccoli insetti giudiziosi. Squillò il cellulare. Lo lasciò squillare. Si piegò sulle gambe cercando di non mettersi ad urlare.
Non poteva farlo. Semplicemente non poteva. Il solo pensiero di muovere un altro passo o di alzare un peso o di rivolgere la parola a qualcuno per chiedere aiuto… era semplicemente impossibile. Sentiva che stava per rigettare la colazione. Si sforzò di tenerla dentro come le avevano insegnato. Anni e anni di pratica per vincere l’istinto di ficcarsi due dita in gola e lenire l’angoscia. Non poteva. Non in mezzo a tutta quella gente.
Seppe che era finita quando le scritte rosse cominciarono a liquefarsi entro il contorno delle palpebre. Colavano dal tabellone come se qualcuno le stesse pulendo via con uno smacchiatore. Una valigia le morse una caviglia. Una mano si poggiò sulla sua schiena e disse qualcosa con la voce di una signora. Scosse la testa per dire che non voleva niente. Grazie, non ci serve niente. Grazie, lasciateci in pace. Lentamente recuperò l’equilibrio e si rimise in piedi.
Trascinò le valigie una per volta sul pavimento tirato a lucido, verso il luccichio della porta di vetro. La vedeva allontanarsi ad ogni passo, farsi più piccola e più sfocata, e quando il palmo poggiò sulla superficie liscia e fredda, seppe che era davvero finita.
Un tassista pelato stipò le sue cose nel bagagliaio. Allacciò la cintura lentamente, con una mossa misurata.
« Mi porti al mare » disse.
« Mare? » il tassista pareva perplesso.
« Mare. Quello più vicino. San Benedetto? Senigallia? »
La geografia era indifferente.
« C’è la spiaggia di Falconara a cinque chilometri. »
« Falconara andrà benissimo. »
Si stese contro il sedile rigido con la testa girata da un lato, per non far vedere che piangeva.

Veniva da una famiglia molto comune, Irene. Suo padre faceva il pompiere, la madre era casalinga. Aveva un fratello più piccolo che andava ancora al liceo. Per i suoi aveva sempre parole tranquille, venate di un profondo senso di colpa, che emergeva solo a tratti, alle curve più inaspettate.
Fin da piccola le era stato insegnato che due cose erano importanti per sopravvivere a questo mondo, il giudizio e l’educazione. La prima parte dell’insegnamento l’aveva assimilata molto bene, e non si poteva dire che non fosse giudiziosa. Solo, i suoi giudizi partivano spesso da premesse sbagliate. Era convinta di ogni singola cosa che diceva, convinta fino al midollo, e un consiglio mal indirizzato non mancava mai di infastidirla. Quanto all’educazione, questa seconda parte era più astratta e meno efficace. A volte la vedevi sforzarsi di essere educata, allungare una frase di cortesia, ma sempre con un leggero ritardo, e non era mai chiaro se lo facesse per innata malizia o infantile timidità.
Quand’era ancora piccola, i suoi avevano cominciato ad istruirla alla responsabilità. Ogni settimana, di domenica mattina, subito dopo la colazione, riceveva la sua paghetta, che conservava in una bustina di carta tra due libri. Si era imposta un piccolo regime molto austero e ogni settimana riusciva a metterne da parte più della metà. In un’agendina di pelle nera, molto simile a quella che avevo stretto tra le mani, teneva il conto delle entrate e delle uscite. E quando si iscrisse all’università riuscì a pagare la prima tassa da sola. La cosa la riempiva d’orgoglio, non soltanto perché le sue rinunce erano valse a qualcosa ma perché mostravano quanto caparbia e votata al sacrificio fosse. Si era sempre sentita votata al sacrificio, un sacrificio non più concreto dei precetti genitoriali sull’educazione, ma non per questo meno sentito. Era come se avesse bisogno di non essere troppo felice, come se la necessità la spingesse a non aspettarsi molto. Il pensiero di rinunciare a qualcosa le dava piacere.
Fu forse per lo stesso meccanismo che quando aveva quindici anni smise di mangiare. In realtà la cosa era iniziata molto prima: aveva lavorato nel suo inconscio per anni e anni, come un piccolo verme progressivamente ben nutrito. Non era mai riuscita a trattenere un amico per più di un paio di mesi; stringere nuovi rapporti era di per sé un’impresa scoraggiante, che la costringeva a veri e propri ricatti. Parlava poco e amava dire cose banali, come se allontanare le persone fosse un’altra fetta del suo amore per il sacrificio. Non pensava cose banali, ma non le piaceva parlare dei suoi pensieri. Per indole era malinconica e decisamente lunatica. Alternava fasi di distensione a periodi in cui persino lasciare la sua stanza le pesava.
Gli zii pensavano che i libri le avessero rovinato la testa, e non mancavano mai di esprimere questo giudizio durante i pranzi di Natale:
« I libri le hanno rovinato la testa. »
Leggere le piaceva quasi quanto i numeri. Entrambi erano una forma di incasellamento che la rassicurava sulla possibilità di un ordine. Perché Irene era sicura che dovesse esserci un ordine. Da qualche parte esisteva una dimensione dove ad ogni “a” corrispondeva sempre “a” e la x si trovava in tutte le equazioni. In questa dimensione ognuno aveva ciò che gli spettava e tutti potevano essere semplicemente com’erano. Nessuno ti giudicava se eri di cattivo umore e potevi persino formulare pensieri di morte senza sentirti in colpa. Laggiù, se eri una x, avresti subito trovato una y che ti corrispondeva, una y che solo potesse fare coppia con te, perché era l’unica in grado di definirti e di interpretarti. Cercava questa y in tutte le persone che incontrava, e allora non ci sarebbe stato bisogno di ricatti e neanche di dire cose che non pensava. Avrebbe potuto parlare in libertà e persino essere accettata per ciò che era, se non capita. Ma trovare la y era difficile, perché questo mondo, a differenza dell’altro, era disordinato e caotico. Per questo finiva sempre per allontanare tutti.
A quindici anni smise di mangiare, come se col diventare trasparente potesse scomparire dai pranzi di Natale. Non era un modo per sentirsi più bella o più adeguata a una certa idea di sé, quanto un primo, blando, tentativo di suicidio. Mangiare stava a vivere come non mangiare stava a morire, diceva la proporzione. I numeri le vennero in aiuto quando fu il momento di contare i grammi e i milligrammi. I suoi erano spaventati, la riempivano di attenzioni. Molta gente si scansava, ma altrettanti erano quelli che si avvicinavano a lei. Era il suo ricatto di maggior successo: la morte era una colata di miele che coinvolgeva nel suo profumo un nugolo di mosconi.
Fu vero fino a un certo punto. Fu vero fino a quando rinunciarono a tenerla a casa e la ricoverarono in un centro per disturbi alimentari. Allora tutto prese una piega meno divertente.
Di questo periodo aveva ricordi duri, intrisi di dolore. Ma era un dolore che era più una rabbia, come se d’un tratto avesse trovato qualcuno su cui sfogare la frustrazione per tutte le sue rinunce. Enumerava tra i suoi nemici psicologi e suore dalla voce mite. Poteva rievocare la vergogna di un cucchiaio premuto tra i denti e il lento gocciolare delle flebo che la tradiva. Ricordava l’essere privata di tutto, perché niente doveva distrarla dal pensiero di lei. Pensare tutto il giorno a se stessi, come se fosse una cura, anziché una malattia. Ricordava le attività di gruppo, le facce tirate, le frasi di circostanza, le raccomandazioni grondanti moralismo. Ma la cosa che le portava un riso isterico alle labbra era il ricordo di quegli stupidi manifesti. Una volta ne aveva tirato giù uno e si era data a strapparlo in striscioline sottili. Quando l’avevano trovata, erano tutti troppo spaventati per punirla.
Era un grosso manifesto raffigurante una ragazza scheletrica, presa di schiena. Le costole sporgevano dalla pelle come quelle di un dinosauro dissepolto e quasi la si poteva scambiare per un fossile. Era ferma di fronte a uno specchio, ma il riflesso non le corrispondeva. Lo spettatore avrebbe dovuto capire che vedeva se stessa come la persona del riflesso, una ragazza grassa e brufolosa con un brutto grugno.
Tutti odiavano quel manifesto, ma nessuno osava farne parola. Lo odiavano perché era semplicistico e barbaro e minimizzava il loro come un problema di immagine. Odiavano con pari intensità la ragazza scheletrica e la ragazza grassa, perché né loro né il loro riflesso si sentivano adeguatamente rappresentati. Le trasformava in caricatura, in generalizzazione, voleva parlare di tutti senza parlare di nessuno. Odiavano quel manifesto perché spesso la gente si fermava a guardarlo e, quando alzava gli occhi su di loro, si vedeva che le compativano.

Quando ne ebbe abbastanza, smise di rifiutare i cucchiai e di staccare l’ago della flebo. Adesso rispondeva alle domande degli psicologi e ai sorrisi delle suore. Accettava le loro iniezioni di felicità artificiale con tanta gratitudine quanta falsità. Nel giro di qualche settimana la lasciarono andare a casa.
I suoi erano incerti sul modo di trattarla e da allora non fu mai più lo stesso. Loro che sempre avevano cercato di responsabilizzarla adesso le rimboccavano le coperte, chiedevano sempre “come stai?” e cercavano di analizzare tutti insieme il motivo per cui era tanto infelice. Capì che la cosa non poteva continuare e cominciò ad abbozzare qualche tirato sorriso. Era capace di simulare una lievità che certe volte rasentava la follia e alle sue battute taglienti e un po’ affettate non si smetteva mai di ridere.
Finito il liceo, si iscrisse all’università. A forza di bugie si era di nuovo guadagnata la fiducia dei suoi e, quando lasciò la casa e la città paterna, questo fu salutato come un gesto di grande responsabilità e maturazione. Era una fuga, era lo stesso che fuggire dal centro, ma questo lo sapeva solo lei.
Poi venne l’occasione della borsa Erasmus, i preparativi, l’aeroporto, l’angoscia. Quello che per qualche anno aveva retto in un equilibrio distorto si incrinò di nuovo. Il tempo del sacrificio era finito, non si trattava più di ricostruire. Adesso voleva solo staccare tutti i pezzi, disporli in ordine sul pavimento e saltarci sopra coi piedi fino a farne una polverina.

Si alzò dal tavolo per sciacquare la tazza e fece scorrere l’acqua molto più del dovuto. Evitava il mio sguardo ed io evitavo di guardarla, tranne quando era voltata di schiena. Ricordai la mia prima impressione, cioè che scompariva nei vestiti, e allora mi parve più fondata che mai.
« Anch’io una volta mi sono sentito così » dissi, come se la cosa potesse in qualche modo offrirle sollievo.
Irene girò brevemente la testa e un fiotto di luce piovve sull’osso sporgente della sua mandibola. Non lo avevo mai raccontato a nessuno. Ai miei avevo accennato qualcosa, ma non più di quanto potessero capire. Si ha sempre l’impressione che nessuno possa capire tutto. E allora, a che vale parlare?
Era stato quando Rebecca mi aveva lasciato, dopo che eravamo andati a vivere insieme e volevamo sposarci e stavamo per avere un bambino. Non è vero che non ho mai voluto sposarmi e non è vero che non ho mai amato nessuno. Ma è più facile come faccio io, far finta di niente. Mi innamoravo di lei centinaia di volte al giorno, quando sorrideva, quando girava il mestolo nella pentola, quando si stringeva contro il mio fianco e sentivo due cuori battere nel suo. Le piaceva truccarsi nello specchio in cucina, così avevo sempre il bagno libero. Eravamo felici.
E poi qualcosa era andato storto, per nessuna ragione plausibile. Un aborto spontaneo. Aveva perso il nostro bambino, perso come se fosse andata al parco e lo avesse dimenticato lì, e d’un tratto io non stavo più diventando padre e neanche lei madre e a tenerci insieme c’era solo un bell’appartamento ammobiliato. Io non le davo la colpa, le dicevo che ne avremmo avuti altri, tanti altri, ma Rebecca era troppo scossa anche solo per starmi a sentire. Fra di noi si era messo qualcosa che nessuno poteva penetrare. E dentro di me sapevo che non valeva fingere, che io la accusavo, che sentivo che quel nostro figlio io non l’avrei mai lasciato al parco da solo.
Non riuscimmo ad andare avanti. Non ci riuscivamo, insieme. Pian piano lei superò la perdita e cominciò a frequentare altri uomini e ai miei occhi era ancora più colpevole, perché adesso stava lasciando me. Vendemmo l’appartamento. Tornammo ognuno sui suoi binari.
Io giurai a me stesso che mai più mi sarei spinto tanto avanti. Giurai che non dovevo mai più affezionarmi a una persona o a un’idea. Qualche settimana dopo mi imbattei in Ryanair, il resto è storia.
Irene aveva arcuato le sopracciglia e mi guardava con la bocca leggermente dischiusa.
« E così sei umano anche tu » disse, un po’ sbalordita e un po’ canzonatoria « È una storia molto bella. È un peccato che non me l’hai raccontata prima. »
« Perché avrei dovuto? »
« Perché io ti ho raccontato tante cose. E invece non riesco mai a capire chi sei tu. Se provi qualcosa. Se ragioni su quello che senti. Qualche volta ho davvero l’impressione che… non lo so, che ci sia una parte di pazzia in te. »
« Pazzia? »
« Sì, quella pazzia silenziosa che germoglia in segreto e scoppia tutta assieme. »
« Detto da te è quasi un complimento. »
« Lo era. »
« Quel giorno, quando sei andata via dall’aeroporto, che cosa è successo? »
« Ho preso una decisione. »
« Quale? »
« Questa qui. »

Quel giorno, quand’era andata via dall’aeroporto e aveva pagato il tassì e s’era fatta scaricare le valigie in mezzo al nulla, al di là del muricciolo che divideva la strada dalla spiaggia, per prima cosa aveva tolto le scarpe e i calzini e li aveva abbandonati da una parte.
Il cielo stava scurendo, perché era pomeriggio inoltrato, e la lastra piatta del mare stava perdendo tutta la sua luce. La massa d’acqua era compatta e ostile, grigia come una distesa di ferrame. Sedette sul bagnasciuga e guardò la luce scemare finché fu sera. Le luci intorno alla costa si accendevano, ma non c’era una sola favilla in tutta la spiaggia e s’era alzato un vento che la faceva rabbrividire nelle spalle. Cercava di non pensare, o almeno di non pensare cose troppo dolorose e il rollio la aiutava a districare un dolore dall’altro, a cancellarne uno con l’altro, a sommergere e a trascinare entrambi giù nel gorgo della risacca.
Scorreva il mazzo delle ipotesi, contemplandole tutte con uguale scetticismo. Tornare a casa. Farsi rimborsare il biglietto. Partire col prossimo volo. Non c’era un’ipotesi, tra quelle, che le permettesse di restare seduta, il sedere sprofondato nella sabbia, le dita lisciate di granelli. Non c’era niente che potesse imbattersi in lei in quel momento e salvarla da se stessa, dagli altri, dalle decisioni da prendere. Solo lei, per la prima volta davvero sola, senza consiglieri e consigli, senza giusto e sbagliato. Il mare non parlava, l’acqua non farfugliava altro che onde.
Il mare alla notte ha un fastidioso richiamo, qualcosa che tocca la nota nascosta e preme un pulsante, avviando una spirale che fa di te un tutt’uno con lui. Silenzioso, racconta di possibilità infinite quanto infinite sono le sue scaglie. Il messaggio, inequivocabile, è che tu gli appartieni ed egli ti appartiene e che è disposto a custodire le tue spoglie in segreto, ad avvolgerle e rivolgerle in innumeri capriole. Ti sta chiamando per essere la sua sposa ed amica, la sua sirena e confidente, ti parla di tuffi che non fanno rumore e si dimenticano in fretta sulla terraferma. Promette una morte che è quasi un affievolirsi.
Non era la prima volta che pensava alla morte, ma mai tanto seriamente l’aveva iscritta nel novero delle ipotesi. Ora, quella le luccicava incontro dall’orizzonte mobile. Si spogliò di quello che era stata una volta, di tutto quel bisogno di attenzioni, e decise che era disposta ad essere dimenticata. Decise che essere infelice, imperfetta, codarda era suo diritto quasi quanto essere lì.
E l’unico motivo per cui i suoi piedi scalzi non furono lambiti dall’onda, quella sera, fu che un uomo la vide e le puntò una torcia in faccia e disse che di sera era proibito dormire in spiaggia. Pensò che lei si preparava per un lungo sonno, e quindi quell’uomo aveva ragione.
Rifece il cammino a ritroso, recuperò le valigie e cercò una stanza in un albergo che dava sul mare. Quella notte, in una camera d’albergo, pensò a tutte le persone che si erano uccise, quelle che le venivano in mente e le piacevano di più, e quasi tutti erano scrittori, perché le piacevano i libri. E l’acqua le cantava di un lontano ruscello inglese e la stanza spoglia, il letto grosso e vuoto, le parlavano di un’altra stanza dove la gente moriva ingoiando bustine di sonnifero, e nei confusi pensieri del sogno i due luoghi si unirono e anche le storie e furono un tutt’uno.
Qualche giorno dopo, quando già pianificava la sua morte, s’era imbattuta per caso in un annuncio. Una finestra le si era aperta sotto gli occhi mentre controllava la posta da un Internet Point. E quando poi, la settimana seguente, aveva chiesto a Iris perché proprio allora, perché proprio io, Iris l’aveva guardata con occhi di madre, bisbigliando:
« Perché avevi bisogno di noi. »
« Ne avevo bisogno. Tutto qui? È tutto così… funzionale, miracoloso? »
« No, Irene, è solo tutto molto ordinato. »

Ed era così. Io ero lì per caso e lei era lì per caso, ed entrambi non eravamo un caso bensì una pianificazione misteriosa, apparecchiata da chi non si sapeva bene. Da Iris? Non era anche Iris come noi, non era un caso ma l’architetto del caso? Né lei né io sapevamo dirlo e non parlammo di questo, né allora né mai. Perché io non ero abbastanza intelligente per parlare di cose più grandi di me e Irene aveva gli occhi gonfi di sonno.
Le chiesi se potevo restare e lei disse di no. Le chiesi se le dispiaceva che la baciassi e disse sì. Le chiesi perché e non rispose. Mi accompagnò alla porta. Le dissi:
« Domani voglio portarti in un posto. »
Lei disse:
« Va bene. »
« Vengo a prenderti alle nove. »
« Va bene. »
« Buonanotte. »
« Buonanotte. »

L’indomani andai a prenderla alle nove. Telefonai a Greta e spiegai che stavo ancora male. Lei capì che mentivo, ma mi tenne il gioco. Alle nove e cinque Irene salì in macchina e allacciò la cintura di sicurezza. Era truccata appena appena e aveva i capelli legati. Indossava scarpe da ginnastica. Sembrava pronta per una spedizione in campagna. Io lo trovai appropriato e fui contento che fosse vestita così, anche se non le avevo detto dove stavamo andando.
Fece zapping tra i canali della radio per cercare una canzone triste. Quando fu soddisfatta, le spuntò un sorriso. In viaggio parlammo ancora delle cose che le piacevano quand’era piccola e io le parlai della mia famiglia. Ne fu così affascinata che mi fece promettere di fargliela conoscere.
« Vorresti davvero? »
« Ma certo. Sembrano… una piccola baraonda bucolica. »
« Baraonda bucolica. Ti chiederei di spiegarmelo, se non sapessi che sono troppo scemo. »
« Tu vuoi sempre che gli altri pensino che sei scemo. »
« Beh, però sono molto bello. »
« Certo, certo » disse, con finta aria di condiscendenza. Gli occhi le luccicavano risate.
« E sono una brava persona. Me lo dicono tutti. »
« Questo è vero. Sei una brava persona. »
« Quindi tu pensi che non potrei mai fare cose cattive? »
« No, non dico che non potresti. Ma le faresti sempre a buon fine. Potresti fare una cosa cattiva per me? »
« No, non credo che potrei. »
« Neanche se sapessi che è quello che voglio? »
« No. »
« Ah, allora non voglio più essere amica tua » e si voltò sdegnata verso il finestrino, con una simulata aria di sconcerto.
Le indicai la strada che stavamo percorrendo e chiesi se non c’era mai stata. Rispose di no. Era un peccato, dissi, perché era uno dei posti più belli che conoscevo ed ero sicuro le sarebbe piaciuto molto. E quando, qualche minuto dopo, aprì lo sportello e si lanciò sul ponte sbracciandosi dal parapetto, seppi che avevo visto giusto.
Lo avevo scoperto per caso, in una gita in macchina, tanti anni prima. Vivevo a Urbino da poco tempo ancora e lavoravo solo al mattino, così mi restavano tanti pomeriggi da riempire. Ci tornai più volte da quella prima occasione e cercai di ricreare lo struggimento che me lo avevo reso caro, ma niente aveva la forza della prima visione. Quella stessa forza che ritrovavo adesso nella visione di Irene, e che potevo carpirle dalle retine per riguardare daccapo.
E vidi coi miei occhi quello che vedevano i suoi.
Il ponte romano sul fiume Metauro, un fiumiciattolo in realtà, un ponte con le sponde alte e massicce che scavalcava il torrente per ricongiungere la strada e la piazza del paese. Dal lato sinistro il fiume scorreva bassissimo e verde ben al di sotto del livello dell’abitato, compresso tra gli argini di mattoni; dal lato destro, per uno strano scherzo della natura e dell’uomo, scendeva lungo una serie di gradini, scintillando in cascatelle che toglievano il fiato, e sfociava infine in una pozza paludosa. Alta sopra il ponte svettava la torre merlata e più dietro, dal lato delle cascatelle, stava la sagoma massiccia di un ex cartiera, con la ciminiera che faceva il solletico al cielo e il tetto rattrappito in tre triangoli isosceli. La piazza era vuota, una panchina stinta sotto l’ombra di tre tigli, e la bandiera del Comune che sventolava impacciata, irrigidita, come un politicante fallito.
In mezzo al ponte un’edicola ricordava che Torquato Tasso era stato lì e, anche se non poteva aver visto l’ex cartiera, il ponte e la torre c’erano già. E aveva scritto un’ode al Metauro che Irene mi recitò con la bocca che le tremava e di cui non capii una sola parola.
Si muoveva da un lato all’altro come se non sapesse decidere qual era lo sfondo più bello, se gli argini segnati dalle tacche verdi, che raccontavano tutte le storie e le vite e le altezze del fiume, o il lato delle cascate, che sprizzavano nel sole freddo disegnando arcobaleni e gorgogliavano come ranocchie.
Poi si fermò e rimase in mezzo al ponte, esattamente al centro, con le braccia spalancate a cercare di stabilire un suo equilibrio, di pesare i due piatti della bilancia. E fu parte integrante di quel miracolo come una volta lo ero stato io.
« Ti piace? »
« Come si chiama? »
« Fermignano. »
« Vorrei poter morire qui. »
Quello era il suo modo per dire che le piaceva.
Si appoggiò all’argine di destra, quello che dava sulle cascate, e io le circondai le spalle con un braccio. Alzò il mento e vidi che piangeva. Aveva quel mento così lungo e quegli occhi così grandi e pieni di luccicore. Mi sentivo perduto.
« È l’acqua che lo rende così bello » farfugliò.
Io inghiottii un groppo di lacrime.
« Ma se l’acqua non ci fosse potresti restare sempre con me. »
« Vorresti un mondo senza acqua? »
« Lo voglio, se tu sei con me. »
« Moriremmo di sete. »
« Ma non morresti sola. »
« Non sarò sola, se tu sarai lì con me. »

Di Chiara Pagliochini

1 commento:

  1. Sono Fatima Melim, mi piacerebbe lasciare che ogni sapere che non vi è un vero e proprio mago là fuori e lui mi ha aiutato in tanti modo solo pochi giorni da quando sono venuto in contatto con lui attraverso l'aiuto del mio buon amico che mi ha presentato a lui. ha fatto un incantesimo d'amore per me e mi ha assicurato che, dopo due giorni, il mio ex marito tornerà per me e per la mia più grande sorpresa della due giorni il mio ex è venuto a bussare alla mia porta implorando perdono. Sono così felice che il mio amore è tornato di nuovo. Ancora una volta grazie Dr, Adodo, Sei veramente un grande uomo wow questo uomo ha riportato la gioia nella mia vita che è stato rubato e ora vivo una vita migliore e suono. egli riportare il mio divorzio marito a casa con il suo incantesimo d'amore, quando ho perso il mio husband.he è fedele alla sua parola e lui è qui nel mondo per aiutare l'umanità. egli è il più reale di tutti i caster on-line. egli è il dottor Adodo. è possibile ottenere lo via e-mail: dradodojattotemple@yahoo.com e giuro una prova vi convincerà e vi sarà un felice con te amante di nuovo Whatspp 2.349.057,517051 millions

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