giovedì 9 febbraio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.21

Le relazioni pericolose, R. Magritte

La ritrovai seduta sul bordo del letto. Avevo dormito qualche minuto, forse qualche ora, con la faccia  premuta contro il cuscino, e adesso avevo sete. Il lenzuolo dalla parte di Cassandra era tutto avvitato, la coperta era caduta per terra.
Lei sedeva come sospesa, quasi non appoggiata. Sedeva dandomi le spalle, imbambolata davanti all’anta dell’armadio aperto, nel cui specchio lungo si rifletteva. Mi sembrò che avesse pianto. Il riflesso mi restituiva del suo viso un’immagine incerta, opaca, con tanti punti d’ombra.
L’unica luce filtrava dalla finestra, una luce arancione smorto fessurata dalla tapparella. Sulla parete dietro il letto si disegnava una scacchiera. Doveva essere pomeriggio inoltrato. Cassandra era un tutt’uno coi mulinelli di polvere che battevano contro i suoi capelli e si disperdevano.
Mi sollevai e aggiustai il cuscino dietro la schiena, poi rimasi in silenzio ad osservarla. Era ancora nuda dal torace in su e si guardava pensierosa, la testa inclinata da un lato. Aveva un seno abbondante, un po’ ceduto con l’età, che adesso si curvava verso il ventre. Ma era una curva morbida, appena accennata, gli aloni scuri dei capezzoli ancora espressivi come degli occhi attenti. Mi sentii di nuovo eccitato e cercai di smettere di pensarci.
Cassandra si voltò e mi venne in aiuto.
« Vieni a sentire. »
« Che? »
« Vieni qui a sentire. »
Sollevò un seno a coppa tra le mani e riprese a specchiarsi. Io la raggiunsi sul letto carponi, mi inginocchiai dietro di lei e feci come diceva. Vedere me e lei riflessi nello specchio fu così insolito che smisi di guardare.
« Guardami » disse.
Io cercai il suo sguardo riflesso. Era freddo, per niente intenerito.
La pelle mi scorreva morbida tra i polpastrelli, si scioglieva malleabile tra le mie dita, come quella di un bambino, e i capezzoli si irrigidirono, scoppiando come spuntoni. Eppure c’era qualcosa di sbagliato in quel tocco, qualcosa di medico, di professionale, che si trasmetteva al mio tatto dallo sguardo di Cassandra.
« Qui » disse, e mosse la mano verso il basso, dal lato destro. D’un tratto fu tutta tesa.
« Ecco. »
E poi lo sentii, qualcosa di duro e ostile in tanta morbidezza, qualcosa come incastrato o rimasto lì, il torsolo di un frutto, un animaletto nel suo bozzo.
« Lo senti? »
« Sì » risposi. « Cos’è? »
Cassandra scacciò la mia mano e scivolò più avanti sul bordo del letto.
« Non lo so. Io penso niente di buono. »
« Sei stata a farti controllare? »
« Ho un appuntamento. Lunedì. »
« Quindi, alla fine… avevi ragione tu. »
« Ragione su cosa? »
« Non so… sulle malattie, credo. »
Era una frase molto brutta, molto insensibile da dire, ma me ne resi conto troppo tardi. Solo che Cassandra non era una donna come le altre.
« Tanto nessuno mi dà retta » disse, e stavolta capii che lo aveva detto una volta per tutte.
« Non verrò più all’agenzia » aggiunse, portandosi i capelli da un lato della testa, a coprirsi.
« Non verrai… ? »
« No, ho preso una decisione. Non… voglio farlo io, capisci? »
« Farlo cosa? »
« Uccidermi. Non voglio farlo io. Perché non voglio morire. Oh, dev’essere così brutto, così brutto. »
Le toccai una spalla, cercando nel contempo di toccare quella nota di spavento che le piangeva dentro. Ma non trovai il tasto e lei si alzò dal letto, dando le spalle allo specchio. Adesso era davanti a me, sensuale e generosa quanto lo era stata prima, ma con uno sguardo tutto diverso negli occhi. Era triste, così triste che mi metteva a disagio.
« Io non… Eugenio… io non pensavo potesse farlo davvero. Non pensavo che lei ci avrebbe tenuti lì a guardare. È mostruoso. Continuo a sognarlo, me lo vedo venire incontro dagli angoli. È orribile. Mi sento così male. »
Batté un piede sul tappeto, sollevando un polverone dorato che rimase ad aleggiare sospeso. In quell’atmosfera incerta, mezzo bucherellata, io faticavo a trovare le parole.
« E poi… come facciamo a saperlo? Se quello che c’è dopo è davvero meglio di quello che c’è qui. Se c’è qualcosa dopo. Magari abbiamo ancora una speranza e non ne sappiamo niente. Magari possiamo essere felici o anche solo stare allegri e allora ne vale la pena, ne vale la pena? Eugenio non sapeva quello che faceva e noi non sappiamo quello che facciamo e io voglio fare quello che so. Io ci voglio provare. Anche dovesse far male da scoppiare, perché non provarci? Dovessi finire sotto mille ferri, avere tre cancri, tre arti di meno… ma importa? Forse potrei star bene. Forse c’è posto anche per me. Io non me la sento, di mollare così tutto per qualcosa che non so. Arrivasse una malattia, l’affronterò. Farò tutto quello che va fatto per essere presente a me stessa fino all’ultimo. L’ha fatto mia sorella. Posso farcela anch’io. Voglio lottare, voglio vivere. »
« È quello che ho sempre pensato dovessi fare. »
« Tu dici? »
« Guardati. Non ci sei tagliata. Sei… beh, una bellissima donna, scoppi di salute, sì, insomma… Sono contento, davvero contento per te. »
« Ma non mi seguirai. »
« Non posso. »
« Ma vorresti. Tu non sei come Irene. »
« Cos’ha Irene? »
« È una che va fino in fondo. È una bambina. È testarda e innamorata e non sente nessuna voce che non sia sua. Tu no, tu non andrai fino in fondo. »
« Forse ti sbagli. Forse non è così. »
Si piegò a raccogliere il reggiseno da sotto il cuscino. Io la aiutai a chiudere il gancetto. Sistemò i seni nelle coppe con un certo orgoglio, fissandomi dritto negli occhi. Le labbra si curvarono a una smorfia sorridente. Mi pareva di tener tutta nei palmi quella sua carne accaldata e succulenta e rimpiansi che si stesse rivestendo.
Ma non potevo neanche ignorare le sue parole.
« Tu credi di conoscere Irene meglio di me. »
« Tu non la conosci. La ami. »
« E non è la stessa cosa? »
« Manco per niente. Più la ami più ti accechi, più ti innamori del già conosciuto più hai paura di scavare in profondità. E alla tua età, io dico, alla tua età… »
« Secondo te sono troppo vecchio per lei? »
« No, no, sei quasi bambino quanto lei. »
« E allora perché… ? »
Tentennai alla ricerca di qualche parolina per impreziosire il tutto.
« Perché non molla questa sua idea farlocca e prende quel che le offri? »
« Ecco, non sono proprio le parole che avrei usato io… »
« Ma perché è tutta presa ormai. È troppo tardi. È come una scommessa, capisci? Deve dimostrare qualcosa, anche se non sa bene a chi.  Deve dimostrare che può fare quel che le pare, che è grande, che se ne frega dei sentimenti della gente. »
« È vero, se ne frega. »
« No, sono sicura che piange tutte le notti. »
« Ma se anche piange… Insomma, non è un rimedio. Non è come… scusarsi. »
« Lei vuole vincere, hai capito? Vuole vincere, essere la più brava, la più intelligente, la più coraggiosa della nidiata. »
« Ma non ha senso. »
« Avrebbe senso, se tu fossi stato il più piccolo della nidiata. È quello che è lei. La più piccola e la più spaventata e la più triste e quindi quella più disposta a compromessi. »
« Non avrà anche lei paura di morire? »
« No, lei ha solo paura di vivere. Come tutti, come me. »
Si fece passare tra le braccia un golf bianco e scosse i capelli per accomodarli.
« E comunque ho fame. E penso anche tu » aggiunse, come se quello dovesse riassumere l’intera conversazione.
Mi alzai e infilai boxer e pantaloni. Quando aprii la porta della camera, Ryanair mi raggiunse con un miagolio indiavolato.
« Detesto i gatti » disse Cassandra, per confermare che era proprio lei « Mio nipote s’è preso uno sfogo grosso quanto un pallone da calcio per star dietro a queste bestiacce. Ma tanto… »
« Nessuno ti dà retta. »
« Già » confermò educatamente.
Preparai il caffè per entrambi e misi a scaldare del latte in un bricco. Avevo un pacco nuovo di biscotti, che aprii lungo la linea tratteggiata. Stupide linee tratteggiate, non sono mai dove dovrebbero essere. Cassandra prese un biscotto dal pacchetto e lo sgranocchiò distrattamente.
« E comunque puoi sempre chiamarmi » disse « se quella tua Irene se la tira così. »
« Si notava tanto? »
« Che non scopavi da un sacco? Beh, diciamo un pochetto. »
E sorrise con rinnovata delizia mentre le versavo il caffè.

L’ho rivista, come dicevo, il mese scorso. Non siamo più andati a letto assieme, ma il ricordo ancora non mi dispiace. Anzi, me la rende più simpatica, abbiamo ancora degli argomenti in comune. Adesso riconosco che molte delle cose che disse quel pomeriggio erano pura idiozia, e altre erano pura verità. Sarà vero che una donna capisce un’altra donna sempre meglio di un uomo? Io non ci ho mai creduto sul serio, ma nel caso di Cassandra era così. In un certo senso era una specie di profetessa.
Alla sera, dopo che se n’era andata, tornai da Irene. Perché la sera era sua, di Irene. La pecorella era stata smarrita troppo a lungo. Ventiquattrore, una scopata, una sbronza e tornavo da lei. Intimamente l’avevo capita, intimamente avevo perdonato. Non ero rassegnato a perderla, ma neanche potevo stare lontano da lei.


Di Chiara Pagliochini

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