sabato 25 febbraio 2012

L'agenzia dei suicidi. Cap.24

“Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.”

Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.

La terra desolata, T.S. Eliot


Quanto fummo gentili, educati, solleciti nei confronti l’uno dell’altra come quella mattina, io non ricordo di esserlo stato mai più. Ci muovevamo da un lato all’altro della camera spostando oggetti, chiudendo scatole, piegando lenzuola, come formiche laboriose. Lavoravamo in silenzio, non perché non ci fossero cose da dire, ma perché ce n’erano così tante che non valeva la pena di parlare.
Irene staccava le foto dalla bacheca, le appoggiava sul letto e raccoglieva le puntine in un barattolo di plastica. Rovistava nei cassetti della scrivania traendone mazzi e mazzi di carta per scrivere e carta scritta, che disponeva sul copriletto in due pile. Da una parte la roba da buttare, dall’altra quella che andava salvata.
I ritratti fotografici, la copia del dipinto – che una volta mi aveva detto essere l’Ofelia di Millais, e io mi ero battuto la fronte come se avessi improvvisamente ricordato, invece non ricordavo affatto – e un fascicolo piuttosto sottile di fogli finirono in una cartellina con l’elastico insieme alla sua agenda nera.
« Questi voglio che li tenga tu » ribadì, come se ce ne fosse bisogno.
Penne, matite e altri soprammobili rimasti a far la guardia agli angoli poteva prenderseli Marika. I vestiti e la biancheria riempivano due vecchie valigie e sarebbero finiti in beneficienza. I libri andavano alla biblioteca dell’università. Di questo mi sarei dovuto occupare nei giorni a venire, adempiendo alle sue disposizioni. Nessun testamento, nessuna lettera ad amici e parenti, per quanto lontani e quanto pochi fossero. Irene sperava che riuscissero ad evitare il dolore il più a lungo possibile. Sperava che non smettessero di sperare.
Restò ad ammirare la stanza vuota dal cantuccio della porta e annuì con soddisfazione.
« Fuori » disse, cacciandomi in mano la cartella « Mi devo vestire. »
« Non posso restare a guardare? »
« Per favore, aspetta in corridoio. »
Feci come diceva. Consumai il pianerottolo di passi, chiedendomi come mai ci metteva tanto e cosa stava facendo e se piangeva. Non capivo i miei sentimenti, così tentavo di dipingermi i suoi, ma erano tentativi un po’ goffi, sempre fallimentari. Mi affacciai sulla porta del bagno, socchiusa, e restai a guardare l’angolo di una vasca di ceramica, riempita d’acqua per metà. Sulla superficie appena appena increspata scivolavano dei petali rosa, che andavano lenti e lenti lungo vie segrete e studiate, come barche alla deriva o paperelle di gomma. Di tanto in tanto uno si fermava e faceva come per guardarmi. Mi chiesi se guardavano me come io stavo guardando loro e chi per primo avrebbe abbassato lo sguardo, se l’uomo senz’anima o il fiore senza vita, o forse lo avremmo abbassato entrambi nello stesso momento e saremmo stati perduti.
Poi Irene mi toccò la spalla, vide cosa stavo guardando e disse:
« Stavo facendo l’ultima prova. »
Provò pure un sorriso, che riuscì una smorfia, e mi caricò le braccia di barattoli con altri fiori e altri petali e altre decorazioni che dovevamo portare allo sposalizio.
« Scendi le scale prima di me » aggiunse « Dimmi come sto. »
Feci come diceva. Ai piedi delle scale c’era Marika, la bocca a metà di un biscotto.
« Si può sapere dove andate così eleganti? » disse, ciancicando la sua preda.
Non le badai. I miei occhi erano tutti per Irene.
Già una volta l’avevo guardata scendere le scale col cuore in gola, ma quel ricordo ora mi parve solo una brutta copia di questo o forse un’anticipazione, un assaggio che non aveva il gusto del piatto finito.
Stavolta la guardai e sperai di trattenerla tutta così. Sperai che non smettesse mai di scendere le scale. E così nel ricordo Irene ancora scende o risale le scale e quando arriva in fondo è già tornata da capo, come se l’eternità l’avesse bloccata in quest’unica sequenza di azioni.
Scende le scale tenendo sollevata la gonna di un lungo abito bianco. È un abito molto semplice, eppure molto incantevole. Il busto è fasciato da un unico lembo di tessuto pieghettato, mentre la gonna si allarga verso il fondo, le increspature che al tocco della luce sembrano di un bianco sempre diverso, ora avorio, ora panna, ora vernice. Le spalline leggermente bombate paiono due alucce che stiano per spuntare. Si ferma a metà della scala per aggiustare i capelli: sono tirati in alto con delle forcine, ma alcune ciocche sfuggono all’acconciatura. Il viso è atteggiato a un’espressione concentrata. Sembra estremamente preoccupata dei suoi capelli. Gli occhi sono lacrimosi, distratti. I pensieri vanno lontano, non so quanto lontano. So solo che non sono occhi disperati. Non hanno niente della paura. Sono occhi di una donna che va a stare da un’altra parte, occhi di una donna che cova insieme speranze e ricordi, e vede ora gli uni ora gli altri. È pronta a un’altra vita. Si congeda da questa.
« ‘Mmazza » dice Marika, rompendo l’incantesimo.

Le guardai salutarsi brevemente, un saluto tutto di superficie. Irene rise e ringraziò per i complimenti.
« Non so se torno stasera » disse, facendo un gesto con la mano che voleva significare la sua disinvoltura « Non stare in pensiero. E non spaventarti se entri in camera mia. Ho impacchettato tutto. Quando torno, riparto per un weekend dai miei. »
« Ci vediamo » rispose Marika.
« Ci vediamo » rispose Irene.
« Ci vediamo » aggiunsi io. E poi mi chiesi dove e quando e come e voltai le spalle al pensiero che pure dovevamo rivederci.
Irene mi precedette per aprire la porta. Armeggiai con le chiavi della macchina e stipai i barattoli sul sedile posteriore, assicurandoli con la cintura perché non cadessero. Irene sedeva davanti, tenendo fra le braccia il mazzo che le avevo procurato dalla fioraia. Tracciò con le dita la corolla di una margherita, soffiò via la polverina da un papavero e scavò col pollice nelle olmarie appassite. Un ciuffo d’ortica era finito nel mezzo per sbaglio: la punta del mignolo le si coprì di piccole vesciche. Se lo portò alle labbra per lenire il dolore e strinse al petto quel suo mazzo avvolto in carta di giornali.
« Ti ringrazio » disse.
Io diedi gas per andare dove stavamo andando, senza sapere dove stavamo andando, senza guardare la strada e sentendo forte al mio fianco la sua presenza già quasi intangibile. Era così bianca, così luminosa che era come guardare dentro un vuoto. Ho guardato nel vuoto e ancora non so cosa ho provato. Sapevo soltanto che dovevo andare diritto e invece volevo andare storto, saltare le curve, arrampicarmi sui muretti e finire nei burroni purché fossimo insieme. E vedevo la macchina come rotolare giù da un pendio senza fine in cui non smettevamo di cadere. Invece andavo diritto. Invece andavo diritto.

Il cielo era alto e limpido sopra di noi quando Irene spinse la porta dell’agenzia. Registrai il suono di materie plastiche come se lo sentissi per la prima volta. Mi sembrava di camminare e di guardare attraverso una bolla dalla superficie levigata, che faceva tutto più attutito, più informe. Vedevo la scena da lontano, come se non la stessi vivendo, se stesse capitando a qualcun altro, la sequenza di un brutto film dai colori spenti o il passaggio di un libro in terza persona.
Era Iris quella che ci veniva incontro dal corridoio? Era sua la voce che disse « Non aspettiamo nessun’altro? » ? La sua faccia pareva galleggiare a mezz’aria, con la treccia da una parte a far da áncora. Non sapevo che piega dare agli angoli della sua bocca, come uno scultore indeciso sul modo di sbozzare la pietra. Alzavo lo scalpello e quando stavo per colpire, zac!, quello mi ricadeva fiaccamente lungo i fianchi.
« Nessun’altro » disse Irene, da qualche parte intorno a me.
Sentivo la voce di Ida ma non ero capace di vederla. La sentivo affaccendarsi per togliermi la giacca. Sono sicuro che sfilasse una manica, ma non tanto sicuro che la sfilasse dal mio braccio o che sfilasse la manica portandosi dietro la giacca. Non sono sicuro che indossassi una giacca.
Sapevo che Iris diceva « Bene, potete accomodarvi », e quella era l’unica cosa che contava, perché Irene si stava incamminando lungo il corridoio, seguendo una lucina fioca in fondo. Sapevo che dovevo seguirla perché lei mi teneva per mano, ed era la forza del suo strattone a trascinarmi avanti.
La saletta era sgombra e pulita, le luci tutte spente. Non c’erano banchi né tappeti né sgabelli. La lucina proveniva da una porta sulla destra, una luce soffusa traverso un vetro smerigliato. Ricordo di aver premuto il naso contro il vetro, come se pensassi di vederci dentro un impiccato. Poi Iris spinse la porta e la tenne aperta per me, il che mi parve strano, perché non volevo impiccarmi. Guardai Irene per avere conferma che stavamo facendo bene, ma lei non ricambiò lo sguardo.
Quando la porta si chiuse, volevo andarle dietro, ma Iris mi tenne fermo e disse:
« Lei resti qui. »
C’era una fila di seggiole allineate lungo la parete, e sembrava che io dovessi restare qui. Mi sedetti e chiusi gli occhi dentro le mani incrociate, per schiarirmi i pensieri. Qualcuno mi spinse un bicchiere d’acqua contro il petto, allora aprii gli occhi e vidi Ida. Stavolta la vedevo, ma non riuscivo a sentirla parlare. Muoveva le labbra come un pesce rosso, rinforzando il suo messaggio con qualche piccola pacca sulle spalle. Dissi, « Grazie », ma non sapevo se era quello che voleva sentirsi dire e la guardai allontanarsi ancheggiando.
Dovevo fare qualcosa per cavarmi fuori dalla bolla. Avevo l’impressione che fosse tutto sbagliato. Mi concentrai su azioni semplici che dovevo sbrogliare una per una. Piegai il dito indice cercando di non piegare tutti gli altri. Tirai su col naso. Mi grattai dietro l’orecchio dove avevo male. Mi gratificò pensare che questi compiti mi riuscivano. Applicai l’attenzione a quella stanza, per capire come fosse fatta e perché eravamo passati dalla porta invece di restare dietro il vetro. Era una stanza larga, violentemente illuminata. A guardare il soffitto c’era da riabbassare subito gli occhi, perché le palpebre si riempivano di scintille incandescenti. Il pavimento era mattonato color crema, grandi lastre chiare e buone, che non ribattevano in faccia la luce.
Al centro della sala, su una pedana rialzata, c’era una vasca da bagno. La vasca era poggiata di profilo, sorretta sui suoi piedini d’ottone, modellati in solide zampe artigliate. Mostrava una faccia di mezza luna, una faccia ammiccante e formosa come una pancia di donna. La luce batteva sulla fiancata, così che non sapevo se era davvero una vasca o piuttosto una piroga sulla cresta dell’onda o forse una falce reclina sull’erba o una smorfia, una smorfia beffarda, crudele. Distolsi lo sguardo, non potevo soffrire il suo, e lo diressi altrove.
Cercai con gli occhi Irene, ma non trovai che i suoi piedini che si muovevano. Sporgevano da un lettino incartato di bianco, come di quelli per visitare i malati, e Irene era seduta a cavalcioni, le gambe e i piedi nudi che sferzavano l’aria in movimenti di dondolo. Dietro il lettino c’era un grosso macchinario che registrava delle lineette seghettate. Era carino da guardare perché le lineette correvano via, alzandosi e abbassandosi come se non volessero farsi acchiappare. Intorno a Irene, camuffate in grossi camici e pantofole e mascherine, ronzavano Iris e Ida, più irrequiete loro delle lineette, e certamente più difficili da acchiappare. Quando avevano avuto il tempo di cambiarsi? O erano sempre state vestite così?
Erano strani i loro gesti da così lontano, gesti confusi, da pantomima. Gli arti si aggrovigliavano, le teste si frapponevano, i passi confondevano tutto, e non si sapeva di chi fossero tutti quei pezzi, come se le parti fossero più del tutto o il tutto molto meno delle parti. O forse ero io che guardavo come attraverso una reticella. Forse guardavo al rallentatore, ed era per questo che i loro gesti così semplici si spezzettavano in tanti piccoli frammenti, che presi singolarmente erano privi di significato e anche insieme parevano un Picasso.
Poi Iris si staccò dal lettino e camminò verso la vasca, e per seguirla i miei occhi si strizzarono come un tubetto di maionese. Come si versa tè da una teiera panciuta, che riflette e cattura la luce giocando a rimbalzarla tra le tazzine, come si versa tè da una teiera panciuta e il fumo sale spiraleggiante dal fondo della tazza e si chiede, « quanto zucchero? », come si versa tè da una teiera panciuta e lo si trangugia con labbra attente, premute appena appena sul bordo, pronte a ritrarsi come le piume di un pulcino, così si può versare acqua in una vasca da bagno. La si versa con un secchio di rame, la si versa con premura, inclinando bene il beccuccio. E se non c’è abbastanza tè per tutti o non abbastanza acqua, allora la donna si scusa o almeno tenta di giustificarsi con una smorfia e dice, « Ne faccio subito dell’altro », e scompare in una stanza attigua da cui riappare portando altro tè o altra acqua, e la teiera e il secchio fanno il loro lavoro finché tutti non sono serviti, finché l’acqua non trabocca dalla vasca, il tè dalla tazza colando sul pavimento, sulla tovaglia, lambendo le punte delle scarpe.
Poi la donna immerge il cucchiaio nella zuccheriera, attenta, con un sorriso sul volto, pronta ad evitare lo spreco e il risparmio, scuote il cucchiaio perché la quantità sia esatta e spolvera finemente la superficie. I granelli ricadono come pioggia incantevole, si dissolvono in dolcezza nella pancia del tè.
Allo stesso modo frivolo e concentrato, coi medesimi gesti di padrona di casa, di moglie, di madre, con lo stesso sorriso arcaico, misterioso di sacerdotessa, Iris pescava dai barattoli di petali. Il suo pugno si apriva, si chiudeva, terminava con una curva sciamanica, dolce ed esatta, e i petali sussultavano sul pelo dell’acqua. Allo stesso modo frivolo e concentrato, coi medesimi gesti di balia e di oracolo, Iris stringeva il mazzo nell’incavo del braccio e le sue dita si aprivano e si chiudevano, cogliendo i fiori dai loro steli, recidendoli con un gesto nervoso, rigettandoli in uno sfolgorio, il colore che si dilata nell’aria, l’esplosione di una polveriera che dura un secondo.
E i petali recisi cominciavano la loro corsa intorno intorno al bordo della vasca. Uno si arrampicava seguendo il contorno di un’onda concentrica, batteva contro la parete, ne veniva frastornato e lanciato al di fuori, e scivolava lungo il profilo di porcellana, bagnato, gualcito, tutto solo in una piccola pozza.
È una cosa che rimarrà nella mia memoria per sempre. La riscrivo, la ricoloro cogli occhi ogni notte. Ogni tanto vi aggiungo un dettaglio, me la costruisco limata come doveva essere, priva di sbavature. Sono sicuro che qualche imprecisione dev’esserci stata, sicuro di averne inventata almeno la metà, ma se non è stato così doveva essere così. A volte le cose devono essere in un certo modo e basta. Cambiarle, migliorarle non è un regalo che facciamo alla memoria, bensì una giusta compensazione della realtà mancata. Scriverle una bella morte è l’ultima cosa che farò per Irene. Non importa che non se lo meriti o non se lo sia meritato. Importa che sento di doverglielo, perché la mia vita prima di lei non era vita. E se ho sofferto, se continuo a soffrire, se anche soffrirò per sempre, non si può fare una colpa a qualcuno per averlo amato. Non era colpa sua se era così amabile e non era colpa sua non amarmi. Non era colpa di nessuno, non è stato. Ma tutto quello che ho avuto da lei… a volte io credo sia pari a quello che ho perso.
La vedevo sul lettino. Adesso Ida le sfilava il vestito dalle braccia, le sfilava la biancheria e Irene restava nuda, completamente inerme, si affrettava a coprirsi con le mani perché non la vedessi. Ma io non stavo davvero guardando, non in quel momento. Se anche l’avessi guardata, non avrei visto una donna, non avrei visto un’amante. Avrei guardato negli occhi quell’animale spaurito, quell’animale senza speranza, con la sua carne da macello pronta al patibolo, e avrei provato soltanto compassione.
Iris immergeva la mano nella vasca, saggiando la temperatura dell’acqua. Intanto Ida spiegava un camicione bianco e lo passava a Irene. La testa scura sbucava dallo scollo rotondo e non c’era più niente di lei. Le sue dita accolsero tremanti un bicchiere d’acqua, batteva i denti dallo sforzo di reggerlo. Iris le fu davanti e tenne la sua mano nella propria, le proprie dita sulle dita bianche e malferme, stampate sul vetro. A capo chino, si dissero qualcosa. Iris annuì. Io pensai che era l’ultima cosa che si dicevano e non potevo sentirla e fui colto da una rabbia che le avrei uccise io. Le avrei uccise io, entrambe, sul momento. Se solo le gambe non fossero state così incapaci di alzarsi, di far funzionare le articolazioni. Se solo la mia bocca si fosse piegata a quell’urlo che sentiva salire.
Era l’ultima cosa che si dicevano e io non avrei mai sentito cosa s’erano dette. Non avrei mai capito Iris, non avrei capito se aveva rimorsi, se soffrisse, se voleva bene a Irene quanto gliene volevo io. E se gliene voleva, perché la uccideva.
Ida cavò dalla tasca del camice un barattolino di plastica. Svitò il coperchio e precipitò sul palmo quattro o cinque pilloline. Le depose nella mano aperta di Irene, quella che non teneva il bicchiere. La guardai e mi sembrava di sentirla soppesare, sembrava una grossa e sgraziata bilancia, da un lato il bicchiere, dall’altro le pillole, come chiedendosi quale pesasse di più o perché pesavano così tanto. Restò con le braccia aperte un secondo solo. Io abbassai gli occhi. Quando li rialzai, era troppo tardi per fermarla. Vidi scomparire i confetti sulla punta della lingua, li vidi inghiottiti, dispersi. Bevve il bicchiere d’acqua in un lungo sorso. Sentii qualcosa che mi si fermava nei polmoni, come se Irene fossi stato io.
La vidi cadere. La vidi distesa. Vidi quel corpo cui non avrei parlato mai più.
Non la vidi cadere. Non la vidi distesa. Irene saltò giù dal lettino come se non fosse mai stata più viva, saltò giù dal lettino e mi corse incontro, si appallottolò tra le mie braccia e i miei occhi che piangevano. Avevo pensato di non poterle parlare mai più e adesso che la stringevo tra le braccia non trovavo niente da dirle. Le parole non salivano. Le bagnavo di pianto la camicia, lei piangeva sulle mie guance. La stringevo forte. Volevo che restasse.
« Abbiamo ancora qualche minuto, prima che facciano effetto. »
E allora pensai a quanto eravamo fortunati e a quanta altra gente non lo era, noi che ci lasciavamo sapendo di lasciarci, noi che ci lasciavamo abbracciati, nel pieno delle forze, nel cuore della vita. Noi che avevamo ancora davanti qualche minuto tutto per noi, e potevamo scegliere le parole, le ultime parole per dirci addio.
Non avremmo fatto come facevano gli altri. Non avremmo mancato l’appuntamento. Ci saremmo detti la cosa giusta, la cosa perfetta, le ultime parole che mai nessuno prima era riuscito a dirsi.
Sentivo Irene che sospirava forte, la testa nell’incavo della mia spalla. Cercai la sua pelle sotto il camicione per sentirla e stringerla e possederla in un attimo con tutta la forza, l’intensità che avevo.
Mi disse delle cose. Disse:
« Ricorda la promessa. »
Io dissi che non avevo dimenticato. Dissi che lo avrei fatto. Lei disse:
« Va bene. »
E poi restammo di nuovo in silenzio, in un pianto abbracciato. Io cercai dentro di me la parola perfetta, il sigillo, l’incantesimo che l’avrebbe liberata. Lo cercai come può cercarsi la parola ferma sulla punta della lingua. Volevo dirle qualcosa che potesse non dimenticare mai e che allo stesso tempo sapevo non avrebbe mai ricordato. Ma era importante per me, importante per me. Non potevo esserle mancante.
E quando l’ebbi trovata e le girai la testa e gliela dissi nell’orecchio, urlando, gliela gridai attraverso, l’ultima parola io l’avevo trovata, ed era per lei, non ce n’era mai stata una simile, mai scrittore o poeta o amante o profeta, mai con lo stesso amore. Le voltai la testa. Ma lei aveva gli occhi chiusi.

Di Chiara Pagliochini

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