giovedì 8 marzo 2012

Lilì SG. Capitolo primo.

Illustrazione di Diletta Angelini

Cosa ci tocca fare al giorno d’oggi per trovare una buona storia. Ficcanasiamo nei cassetti, rispolveriamo le cornici d’argento e interroghiamo questo e quello, dall’operaio in galosce alla signorina che fa i biglietti. E oggi c’è andata anche peggio del solito. Guardate chi ci è toccato. Guardate dove siamo. Ah, non vi si rivolta lo stomaco solo a vederlo?
Quest’aria mefistofelica e quella voce roca sgraziata, questi banchi allineati due a due e la cattedra al centro, pomposa come un’ottomana. Almeno ci facessero il piacere di aprire la finestra. Ma col cavolo. Uno che fa, Aprite la finestra!, l’altro che rimbrotta, È un freddo che si gela!, e quello che ha mal di gola e quello a cui si secca la pelle. Una scuola. Una scuola. Cercare storie in una scuola è come girare per lo zoo con un registratore in mano.
Ma poi, adesso siamo qui. Ci aggiriamo tra i banchi e solleviamo il mento di quelli che ci sembrano gli esemplari migliori. Che occhi vuoti e tondi, che colorito malsano. Cade una matita. Si scheggia il gessetto. Stride la lavagna di un suono di vaporetto.
Una scuola, una quarta liceo. Poteva andarci peggio, ma anche molto meglio. E neanche a dire che c’è tanta carne al fuoco: dall’ultimo banco sonnecchiano, la tizia in terzultima fila stacca un boccone dal panino al prosciutto, il tipo con gli strani capelli dritti si soffia il naso tra due dita. Non guardare, non guardare, ecco, sembra fatto apposta per rovinare l’appetito.
Rosa rosae rosae rosam rosa rosa. Rosae rosarum rosis rosas rosae rosis. Un coro si leva in un ordinato motivetto di valzer, un due tre, un due tre. L’insegnante spalanca le braccia e cavalca l’onda acustica con un gesto del polso. Rosa rosae rosae, rosam rosa rosa. Rosae rosarum rosis, rosas rosae rosis. Ricadono le braccia e torna il silenzio e il neo grosso sotto il mento della prof si contrae in uno spasmo appena percepibile.
Ma ecco! Ecco. Forse abbiamo trovato qualcosa. No, non quella. Dio, non la battona con le ciglia finte. Santo Cielo, neanche quello! Più a destra, più a destra, no, un pochino più a sinistra, dritto avanti, avanti ho detto, prima fila. Ecco. Questa è quel che ci vuole.
Non sembra anche a voi che dentro questa testolina possa nascondersi una storia interessante? Certo, a prima vista non si direbbe. Anzi, vien quasi voglia di distogliere lo sguardo e cercare altrove. La battona con le ciglia finte, a confronto, pare un esemplare di prima classe. Ma basterebbe non andare troppo per il sottile, ecco. Per esempio, questi capelli color grano bagnato, bene, non sono la vista più intrigante del mondo: spartiti da una riga al centro e ridivisi in due code flosce, unticce, con una scaglietta di forfora messa lì quasi a far da segnaposto. E anche questa fronte spaziosa, concentratissima, le rughe di espressione solcate da brufoletti. Se poi apre la bocca, si vede subito che porta l’apparecchio cogli elastici blu. Ma se noi la prendiamo da lontano, se restiamo ad osservarla dall’ultima fila, quando ha la bocca chiusa, e proviamo a figurarcela tra venti o trent’anni, certo, potrebbe anche diventare una creatura discreta. Richiede un vasto sforzo di immaginazione, ma d’altronde cosa c’è di più grande, cosa c’è di più puro dell’immaginazione quando si va in cerca di una buona storia?
E questa signorina del primo banco, questa bruttina con gli occhiali tondi e l’apparecchio, con le scarpe pesanti e un rosa rosae molto acuto, questa signorina sarà la nostra storia. Non siete contenti? Almeno un pochettino?
Bene, ora si prova a sedercisi a fianco e a capirne un po’ di più. Dagli occhi interrogativi del tipo del banco dietro si direbbe che non è molto popolare. Gli chiediamo perché e lui fa spallucce, come a dire, Che volete che mi importi? Un altro, interrogato, scuote la testa: Carneade, chi era costui?
Se nessuno vuol dirci niente, dovremo chiedere direttamente a lei. Le tocchiamo la spalla, ma non ci sente. Sembra molto presa dalla lezione, dal ronzio ipnotico del rosa rosae. Siamo sicuri che tutta questa attenzione le frutterà un buon voto.
Ci alziamo e sbirciamo il registro. Strilliamo nell’orecchio della prof che vogliamo sapere come si chiama. Lei fa correre distrattamente il dito sull’elenco e grida, Liliana! La nostra piccola sussulta, si aggrappa con le mani al libro di testo e si alza lentamente dal banco. Appoggia il libro sulla cattedra e alza il mento, dando risalto alla linea aspra della mandibola. L’insegnante fa un sorriso distratto e prende a interrogarla senza badare a noi. Il rosa rosae non ci interessa e men che meno il lupus lupi, così ci sediamo stancamente e aspettiamo che sia tutto finito. Spiamo la goccia di sudore che si stacca dall’ultimo capello della fronte e scende lungo lo zigomo e poi corre a seppellirsi nel colletto. Studiamo il tremore dissimulato della mano destra. Registriamo tutte le inflessioni della voce. Ma dovremo aspettare che l’interrogazione finisca per saperne qualcosa di più.
Il suono della campanella ci fa saltar su. Liliana si volta nella nostra direzione, senza vederci, e i suoi occhi dietro le lenti corrono alla cerniera dello zaino. È l’ora di tornare a casa. La professoressa cerca la casellina nel registro e intrappola un piccolo otto che sbatte contro gli spigoli. Liliana ringrazia, dice, Arrivederci, e si affretta a chiudere la lampo. Lo zaino è in spalla e via lungo catene di spintoni verso la porta d’ingresso, gli studenti che sciamano per raggiungere gli autobus, la campanella che si prolunga in un driiin spasmodico. Ci facciamo largo per tener dietro a Liliana e saliamo dietro di lei sul pulmino. I posti son già tutti presi, così restiamo in piedi e continuiamo a tenerla d’occhio dalla nostra visuale privilegiata. Se era una buona storia, perché è così noiosa? Se è una buona storia, perché non combina niente che si possa raccontare? La nostra signorina non ce la conta giusta. Se ne sta lì pigra, la testa premuta contro il finestrino, senza parlare con nessuno. Sembra che le abbiano disegnato una bocca solo per ficcarci dentro un apparecchio.
Dopo un paio di fermate è il nostro turno. Ci divincoliamo dal gomito di un energumeno per scendere dall’autobus e seguirla ancora per un tratto a piedi e un attraversamento pedonale, e poi su lungo il vialetto di una villetta a due piani, con un magro giardino stinto. Fermiamo la porta perché non sbatta e siamo dentro. Dentro, c’è odore di cipolla. Una mamma – è sicuro una mamma, ne ha la faccia – scodella nel piatto una porzione di pastasciutta e ricade in una posizione quasi fetale, lo sguardo allucinato su una soap opera alla tv. Da qualche parte un padre strilla; nessuno gli bada. Un oggetto cade e si rompe. Una lacrima scorre lungo la guancia della mamma, ma non sappiamo se è per via della soap opera o dell’oggetto che si è rotto o del padre che strilla o forse di un ricordo lontano, di un gattino ammalato. Che ne sappiamo, che ci interessa.
L’apparecchio tritura gli spaghetti. L’acqua finisce con un glu glu nello stomaco. E la nostra Liliana è ancora una delusione totale. Di malavoglia la accompagniamo su per le scale e poi fino alla cameretta, lungo un corridoio buio, seminato di polverosi tappeti. Sbatte la porta e noi siamo con lei. Ci voltiamo mentre si spoglia e restiamo ad osservarla dall’angolo della finestra, mentre si siede alla scrivania e accende il computer.
Ed è adesso che accade qualcosa di davvero interessante, perché se finora avete pensato che scherzavamo o che era non era possibile, adesso dovrete ricredervi. Voi pensate, Non esistono Liliane del genere. I nerd sono una categoria modaiola, né più né meno di altri: i veri nerd, i vecchi “sfigati” sono tutti estinti. Figurarsi se è possibile, figurarsi se è ancora possibile girare conciati così. Voi pensate che sia uno stereotipo, tutto, dall’inizio alla fine, esser brutti e non parlare con nessuno e prendere persino voti alti.
Poi si torna a casa, si accende il computer, ci si rizza contro lo schienale della sieda e si comincia a scrivere. Una storia d’amore o una storia d’avventura, una storia qualunque, purché sia diversa da noi e possa portarci molto lontano, purché ci faccia dimenticare quanto misere e muffite siano le nostre storie di tutti i giorni, purché ci faccia dimenticare che siamo brutti e abbiamo una voce stridula e nessuno ci rivolge la parola e i nostri genitori si stanno separando.
Ci sono ragazzine senza una vita sociale che, nell’abbandono della loro stanzetta, si prendono una rivincita sul mondo, immortalandolo in immagini ideali. Sono delle sovversive, sono menti anarchiche che non rinunciano al riscatto e alla speranza e che in questa loro sfida ripongono grumi di desideri.
Voi pensate che non esistano più, queste ragazzine brutte che a sedici anni sono ancora vergini, e tuttavia non vanno a seppellirsi in una buca. Ma il problema non è tanto che sono vergini, quanto che non hanno nessuno che la loro verginità la voglia o che accarezzi loro la fronte pronto a scordarsi che è piena di brufoletti. Queste ragazzine – non credete alla tv – cresceranno su con qualche idea bizzarra, non dritte ma deviate, una fobia, un vizio di carattere, una malattia segreta. Queste ragazzine a diciotto anni cominceranno a leggere Sylvia Plath e sprofonderanno nell’abisso della depressione – lo so io e lo sai tu – se nessuno interverrà a salvarle. E non sarà un reality show, non sarà un’eredità imprevista e neanche un centro estetico, bensì un altro sfigato par loro, che se le prenda e goffamente ponga fine ad ogni loro insoddisfazione. Allora queste ragazzine scorderanno che al liceo hanno scritto un libro, un buon libro o un brutto libro, non conta più. Adesso qualcuno le ama e la battaglia è vinta e non c’è bisogno di scrivere, se non c’è più nessuno contro cui vendicarsi.
Ma per il momento la nostra Liliana è una fonte di investimento sicuro. Guardatela come lavora con la testa china. Guardate la foga con cui pigia i tasti e va a capo. Guardate lo sguardo atteggiato, molto molto lontano, che buca lo schermo e nel contempo guarda al di dentro, nel motore di una fantasia sfrenata, lungo i binari di un’immaginazione dilagante.
Se qualcuno entrasse dalla porta e la vedesse così sola, così conciata, certamente si chiederebbe perché esista un essere così disgraziato. Perché esiste? Ma per scrivere un libro!



Illustrazione di Diletta Angelini
 
“Tutto cominciò la mattina in cui scivolai in corridoio. E sarebbe stata una cosa come tante, un avvenimento del tutto irrilevante, se d’un tratto non fosse comparso un coniglio bianco. Uno non se lo aspetta che salti fuori un coniglio, la vita non è mica un cappello, eppure certe volte accade e tu resti lì a chiederti se non avresti potuto prevederlo. Non tanto per evitare che accadesse – d’altronde un coniglio non disturba nessuno – quanto per reagire in maniera appropriata qualora l’occasione si presenti di nuovo.
Nel mio caso sarebbe bastata un po’ d’attenzione. Strane cose stavano già capitando da un angolo all’altro di Balenia, le voci di un cambiamento correvano portate dal vento e le foglie continuavano a cadere, a cadere, come se fossero rimaste sui rami fino a quel momento solo per cadere di botto tutte assieme. Se solo avessi letto i segnali, guardato la tv e carpito i sussurri dalla bocca dei vecchi, avrei potuto capire che sarebbe accaduto. Non prevedere un coniglio, forse, ma certo prevedere qualcosa. Il coniglio, va detto, è stato un tocco di genio.
Accadde quella mattina che mi svegliai e avevo la gola secca. Avevo sognato di bere da un innaffiatoio e la mamma mi rimproverava perché era poco igienico. Al che, con tono sicuro, avevo ribattuto, Ma se la bevono i fiori… Ora avevo la gola secca e desideravo soltanto premere le labbra contro il vetro d’un bicchiere freddo e tornare nel letto al caldo prima che suonasse la sveglia. Sì, perché mancava ancora mezz’ora alla sveglia: non potevo sciupare l’occasione di dormire un altro po’.
Mi alzai e ciabattai fino alla porta. Il corridoio era buio, gelato. La mamma doveva essersi scordata di chiudere qualche finestra. Mi strinsi contro il pigiama e arrancai fino all’interruttore della luce. E fu allora che sentii la voce, distinta, dall’altra parte del corridoio, e misi un piede in fallo e scivolai sul lungo tappeto persiano. Maledetta la mania di mamma per i cimeli multietnici.
Scacciai con le mani le odiose stelline che mi ronzavano intorno alla testa e mi tirai su appoggiata alla parete. Allungai le dita – l’interruttore era proprio lì, a un centimetro scarso – ed ecco, di nuovo la voce. Si piega la gamba, vado lunga di nuovo. Stramaledetto tappeto!
Stavolta le lucciole s’erano vestite in modo fantasioso. Sembrava di avere in circolo per le orbite tanti coniglietti bianchi. Li mandai via tutti con dei gesti calibrati, ma ce n’era uno, proprio al centro, che pareva inchiodato nell’iride. Chiusi gli occhi. Li riaprii. Il coniglio c’era ancora. Me li stropicciai. Non andava via.
« E che cavolo… »
« Buongiorno, Lilì! »
« Ehm… »
« Ehi. Ciao. »
« … ciao? »
Fantastico. Il mio coniglio allucinatorio parlava. Doveva essere un coniglio particolarmente istruito. Tanto che c’ero, registrai qualche dettaglio curioso: uno, il coniglio stava in piedi; due, il coniglio era vestito; tre, no non aveva un orologio da taschino; quattro, quattro; cinque, aveva gli occhi celesti (e un maglioncino in tinta); sei, grosse zampe pelose gli spuntavano dalla gamba dei pantaloni; sette, mi tendeva una mano; otto, ho detto mano e non zampa, perché era un coniglio eretto, vestito e con due mani al posto delle zampe. Ecco, credo sia tutto. Ah, no, sapeva anche il mio nome. Ma per forza, se era una creatura della mia fantasia…
Se era una creatura della mia fantasia. In realtà non ne ero più molto sicura e, mano a mano che realizzavo che la fantasia non cambiava e la vista mi si era stabilizzata e le zampe poggiavano sul solido pavimento, ecco, mano a mano che capivo queste cose il mio entusiasmo scemava.
Perché se c’era davvero un coniglio parlante al centro del corridoio… beh, non era cosa da prendere così alla leggera.
« Buongiorno, Lilì! » ripeté il coniglio. Aveva una voce profonda, leggermente arrochita, come di un maschio adulto.
« Bu-buongiorno… signore » mi morsi la lingua per aver dato del signore a un coniglio.
« È un piacere conoscerti. Sono Batuffolo, ma se vuoi puoi chiamarmi Buffy. »
« Io mi chiamo… Li-lì. »
« Lo sapevo. »
« E… come? »
« Fonti mie, strettamente riservate. »
« Ah. E… se posso… »
« Sì? »
« Pe-perché sei… qui? »
« Ti spiegherò tutto tra un momento. Intanto lasciami dire che sei esattamente come ti avevo immaginata. »
« Anche tu sei… esattamente come ti ho immaginato. »
« Pensi di avermi immaginato? »
« Già. »
« Ma no, tranquilla! »
Tranquilla. Certo.
« Lasciami dire, Lilì, che grande piacere mi fa – »
« Sì. Ho capito. Veniamo al dunque. »
« Certo. Bene. Ecco, io sono qui perché Balenia è in pericolo. »
« Balenia. In pericolo » ripetei come una bambina scema.
« In grave pericolo. »
« Pericolo di cosa? »
« Ah, questo è troppo lungo da spiegare. Non posso certo farlo ora. »
La mia città in pericolo e un coniglio parlante che non può spiegarmi ora il perché. Il sogno dell’innaffiatoio era di gran lunga meno creativo.
« Se non ora, quando? »
« Poi. Oggi pomeriggio, per esempio. »
« Ah, allora mi tengo libera. »
« Certo, non prendere impegni. »
« Certo. Dunque? »
« Dunque che? »
« Un coniglio. Che parla. Al centro. Del corridoio. Balenia. In pericolo. Insomma. Cosa vuoi da me. »
« Ma sicuro, ero qui per questo. Balenia è in pericolo e tu devi aiutarmi a salvarla. Ho bisogno di persone come te, persone in gamba. Persone che amino questa città. Lilì, tu ami questa città? »
« Io? Certo. »
« No, non così. Pensaci bene. Insomma, quanto ami questa città? »
« Beh, è una bellissima città. Noiosa da morire, ma quando uno si abitua… E poi sono nata qui e questa è casa mia e il melo – »
« Sì, sì, benissimo. Allora sei assunta. »
« Assunta per cosa? »
« Per salvare questa città! »
« Ah, già. Non è che posso pensarci un pochino? »
« Hai tempo fino a questo pomeriggio. »
« Quando ci rivediamo. »
« Certo. E adesso non fare tardi a scuola. »
« Scuola. »
« Sì, ti aspetta una sorpresa. »
« Che genere di – »
Ma il coniglio si era voltato e correva a grande velocità lungo il corridoio, un po’ correva e un po’ saltava, intralciato dalle grosse zampe. Io allungai la mano per fermarlo, stavolta, ma quello era già arrivato alla svolta. Si lanciò giù per le scale e sentii il rumore di una finestra che sbatteva. Quella finestra che, la sera prima, quella svampita di mia madre si era scordata di chiudere.”


Di Chiara Pagliochini;
di Liliana Rossi.

Nessun commento:

Posta un commento