venerdì 20 aprile 2012

L'innesto


« Perché questa ragazza è così triste? »
La domanda la riscosse, si svegliò, sentì che le montava la collera. Perché questa ragazza è così triste era affar suo, il motivo di un’indagine tutta privata. Sentirselo chiedere ad alta voce la colpì come un’offesa e un’intrusione. Si chiese se dovesse voltarsi, per rispondere, difendersi, « Io non sono triste affatto », oppure fare un gesto con la mano, quel gesto che si aspettavano da lei. Le mancò la forza. Continuò a camminare.
Non aveva pensato di essere triste fino a quando qualcuno non glielo aveva ricordato. Splendeva il sole, la luce scivolava sulle cose, le colline verdi e lontane parlavano di posti dove non era stata ancora. Tutto era così grande, così magnifico da schiacciarla, e si sentiva piccola, di scarso valore, un’intrusa che non sapeva bene come portarsi. Ma non aveva pensato di essere triste. Quando aveva superato quei ragazzi, è vero, aveva pensato con che faccia affrontarli. Formarsi una faccia non veniva spontaneo, doveva chiedersi, « Potrò far finta di non averli visti? ». Come funziona, quando si incrocia per strada qualcuno che non si conosce? Si scontreranno gli occhi, ci si metterà d’accordo di essersi visti e ci si sorriderà? Oppure si chinerà il capo, si volterà la guancia dall’altra parte, ci si distrarrà con la rubrica del cellulare e si passerà come se non si fosse visto niente? Niente, una falla nel tessuto dell’universo che risucchia la luce tutto intorno.
Eppure quei ragazzi li aveva visti. Aveva visto, ma non li aveva guardati. Tra il notare qualcuno e l’osservarlo corre tutta la differenza d’una forza o d’una debolezza di carattere. Serve coraggio per guardare qualcuno senza abbassare gli occhi: le palpebre corrono a chiudersi per vecchia abitudine, le pupille squadrano corrucciate il marciapiede. Così, quand’era sfilata tra i tre ragazzi in mezzo alla via… Ecco, non era triste – o almeno non triste in un modo così vile e palese – non era triste, stava solo decidendo come guardarli. Uno era biondo, un altro reggeva un sacchetto della spazzatura, un terzo sapeva che c’era, ma l’occhio non l’aveva registrato. Registrare qualcuno è impegnativo: significa esser disposti ad accollarselo, a portarlo con sé nella memoria, a riconoscerlo un’altra volta che si passerà. E così guardare qualcuno – guardare quando lo si guarda con occhi sfacciati – è proprio un’operazione di grande impegno, non esente dai pericoli del contatto umano, un atto che non lascia mai indifferenti. Guardare qualcuno è accarezzarlo, e una carezza non è gesto che si dispensi con facilità. L’occhio sceglie la sua guancia e vi si posa, la riscalda con la promessa di un affetto pronto e così… è proprio così difficile alzare lo sguardo.
La ragazza improvvisamente fu triste. Fu triste per più motivi tutti insieme: triste perché non aveva ricambiato l’occhiata, triste perché non avrebbe ricordato quei ragazzi, triste perch’era sembrata triste, perché aveva mancato un’occasione di essere bella.
Tutto il giorno fu triste e continuò a pensare a quei ragazzi e quando venne la sera sentì di aver commesso un grande sbaglio. Avesse almeno provato a scusarsi, si fosse voltata e avesse detto, « Non sono triste », si fosse fermata per spiegare la differenza tra l’esser tristi e l’esser perduti, e che importa se non avrebbero capito, che conta se le avrebbero riso in faccia. L’avrebbero ricordata, la spazzatura sarebbe sfuggita di mano, e avrebbe donato loro lo stesso imbarazzo che per un attimo aveva provato lei. Ammesso che l’imbarazzo sia un dono, e non la condanna di una lettera scarlatta, non una pistola, un boia, uno sfregio, una cicatrice, un danno. Ammesso che colpire qualcuno col proprio imbarazzo non sia il più mortale dei colpi.
Si immaginava nell’atto di guardare quei ragazzi, di sbatter le ciglia. Loro notavano che era graziosa, che si vestiva bene, e una pioggia di particelle di attrazione inzuppava loro i capelli. Si immaginava che potevano chiederle di salire e la sdraiavano sul letto, e uno le baciava la tempia dalla parte destra, e un brivido le correva giù tutto lungo il fianco.
E più immaginava, più diventava triste, più il capo le si chinava sul collo, più le spalle crollavano invertebrate. Meno vedeva, meno guardava, e intanto intorno pioveva.
Fu solo molto più tardi – molto, molto più tardi, ma fu – che le innestarono un anello d’acciaio, proprio qui, alla base dello sterno, e un corrispondente gancetto sul mento. Così, quand’era troppo fiaccata per guardare, poteva chiudersi il mento col busto, e se ne andava in giro ripiegata come una valigia, premuta come un bottone dentro l’asola.
Questo le risparmiava molti fastidi, ché la gente aveva troppa paura di guardarla e nessuno ebbe mai a dire ch'era una ragazza così deforme - come una volta avevano detto ch'era triste - perché una ragazza non era neanche più.

Di Chiara Pagliochini

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