Stamattina mi sono reso conto che, se invece di traversar la strada sulle strisce, io la tagliassi di traverso alla rinfusa, allora farei come quel corvo o quel merlo le cui penne scoppiarono nello specchietto retrovisore. Mi immagino di camminare sul marciapiede, bello tranquillo, dritto verso casa, e d’un tratto mi prende lo sghiribizzo e mi volto e precipito in mezzo alla carreggiata. Una macchina inchioda, due macchine inchiodano, la terza macchina alza il muso e non fa in tempo ad arrestarsi, e io sono come quel corvo o quel merlo, con la differenza che non ho penne da scoppiare e al limite rantolo un tantino, giusto per far scena, coi tessuti che mi cascano di dosso in poltiglia. Un occhio pende dal bulbo cavo, così, un po’ per scherzo, ancora attaccato a un nervo geloso. La gamba è rovesciata in una posa buffa da marionetta. L’automobilista spalanca lo sportello, mi guarda e va ripetendo con le dita fra i capelli:
« Non ho potuto fare niente per salvarlo. »
Ecco cosa pensavo stamattina, quando tornavo
con le buste della spesa.
Quando sono rientrato, Greta mi ha detto dove
dovevo poggiarle e io sono stato contento, perché non avrei saputo scegliere un
posto migliore. Ha detto « Il pranzo è pronto fra cinque minuti » e sono stato ancora
più contento, contento che mi venisse detto e di non doverlo chiedere, contento
che lei sapesse a che ora era il pranzo e che si doveva pranzare, perché Greta
sa sempre tutto, mentre io non so più niente e, se fosse per me, in questa casa
non mangeremmo e nemmeno faremmo la spesa. Greta sa le cose che si devono fare
e quelle che non vanno fatte e io mi fido di lei, perché fa le veci anche di
me. Greta fa tutto lei, il marito e la moglie, e di questo le sono molto
riconoscente.
Mentre aspettavo che il pranzo fosse pronto, mi
sono seduto sul divano e ho impugnato il telecomando, che non è l’unica arma che
ho per farmi del male, però una delle più efficaci. Ho messo sul telegiornale e
ho contato le vittime del sabato sera, quanti anni avevano, ho fatto le somme,
le sottrazioni, ho moltiplicato per i feriti e i contusi e, alla fine del
telegiornale, il bilancio era di trentatre decessi o forse trecentotrentatre,
tra gli assassinati, i morti per caso e le vittime del genocidio in Uganda. Mi
dispiaceva per tutti quanti loro, mi dispiaceva sinceramente, e in particolare
per l’inondazione a Sumatra, coi corpi che dovevano ancora ripescare. Volevo
piangere un poco sul divano, ritto contro la fodera a quadretti, ma Ryanair è
venuto e mi si è strusciato alle caviglie, così ho perso tempo a fargli i
grattini. Dalla cucina, Greta ha detto che erano pronti gli spaghetti. E, se
lei diceva che erano pronti, erano pronti davvero.
Dopo pranzo ho ritrovato il filo dei miei
pensieri, l’ho sbrogliato dagli spaghetti e mi sono messo ad inseguirlo per
tutta casa. Greta mi guardava e non diceva niente. Ho scoperchiato la scatola
dove tengo la sua roba, la
cartelletta con l’elastico, e ho riletto un mezzo verso. Frantumate sulla
bocca, le parole litigavano l’una con l’altra e ne venivano fuori bocconi di
sillabe che non avevano senso alcuno, ma a cui mi sforzavo di trovare un senso.
Mi sono seduto alla scrivania, ho provato di nuovo a cominciare e ho scritto la
prima riga, che è già qualcosa. Ho scritto la seconda, la terza e poi giù via
la quarta e la quinta, che dopo le prime tre venivano quasi da sole. Allora ho
pensato che magari stavolta c’ero riuscito e ho continuato per tutto il
pomeriggio.
Quando sono rientrato in salotto, Greta era
seduta sul divano e Ryanair acciambellato in grembo. Mi sono seduto anch’io e
ho preso possesso del telecomando. Greta mi ha fermato il polso con la mano e
la sua stretta mi ha riportato quaggiù, proprio accanto a lei. Allora l’ho
guardata negli occhi cercando di essere il più sincero possibile.
« Stai di nuovo pensando a lei » ha detto, e la
frase le è tremata sulle labbra prima di staccarsi.
« No » ho risposto, però mi sentivo uno schifo.
« Stai di nuovo pensando a lei » ha insistito.
Certo che ci stavo pensando. Certo che ci
penso. Se non ci pensassi, non penserei affatto, perché lei è la forma attraverso la quale penso le cose e ogni cosa
pensata è pensata in rapporto a lei. È la pietra di paragone e la sorgente, il
tramite e il punto a cui tutto tende, l’inizio, il mezzo, la fine, il motivo
del viaggio. Se queste parole le scrivo, le scrivo per lei e insieme a lei,
pensando a come vorrebbe che fossero scritte e a dove sbaglio. Non sono sicuro
che le parole aiutino, non so se siano pillole o picconi e comunque non mi
interessa, ora che ho cominciato. Il sollievo mi viene dallo sbrogliare i
pensieri, dal disporli in linea retta verso una direzione precisa, che poi è
lei. Queste parole vengono da lei e a lei ritornano, e che cosa sono io… non ho
mai saputo che cosa sono e meno che mai lo so adesso. Forse sono solo uno
strumento meccanico, uno strumento utile ma umile, o forse nemmeno questo è
necessario. Ma che importa, che importa, che importa. Niente più importa, la
vita come la morte, niente è più sacro, perché tutto faceva sacro lei.
Chiara Pagliochini
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