domenica 16 settembre 2012

Eveline a bordo

Andrew Wyeth

E poi c’è la paura, così dolce che avvelena. La leggi nella piega del braccio congestionato che si artiglia disperatamente al corrimano. E vedi un altro braccio, un’altra piega, corrimano di carta che hai letto una volta, tanto tempo fa, « her hands clutched the iron in frenzy ». Tutti i mari del mondo le si rovesciano sul cuore.
Il braccio appartiene a una ragazza non bella. Dalla punta dell’indice si risale lungo i torrenti viola delle vene gonfie fino alla spalla e al collo, un collo corto che sostiene un mento lungo, una bocca piccola e serrata, un grosso naso e occhi terrorizzati. La fronte è raggrinzita lungo trincee di una battaglia eterna, eternamente persa. Impercettibilmente scrolla la testa, di tanto in tanto, come per assicurarsi che i suoi capelli siano sempre lì, che la ciocca rosso cupo le ricada sempre allo stesso modo sulla tempia. È molto truccata, non bene.
C’è qualcosa in lei, aggrappata a questo corrimano, che grida la sua voglia di gridare. Se potesse, se lo scomparto della metro non fosse così gremito di donne e turisti giapponesi e signori con la ventiquattrore e pakistani, la sua bocca piccola e mal disegnata si aprirebbe in un urlo da cui forse non uscirebbe alcun suono. Ma sarebbe lo stesso spaventoso, spaventoso, perché il dolore è così.
Credo di essere l’unico, tra le persone che conosco, a prendersi così tanto disturbo per persone che non conosco affatto. È che non me la sento di ignorarle. Sì, so che si può solcare il mondo senza sentirsi attraversati dalle linee delle vite altrui, so che si può voltare la testa, affondare il naso in un libro, sprofondare in uno stordimento acustico dentro le cuffie dell’mp3, ma so anche che tutto ciò sarebbe da parte mia un atto di codardia, il venir meno al dovere umano della curiosità. Perché la curiosità – esser curiosi della tristezza su un viso sconosciuto, per esempio – è in qualche modo un dovere, una prova che non siamo al mondo per i fatti nostri, ma per avere a cuore i fatti degli altri, anche di chi non conosciamo. E non parlo di quell’atteggiamento critico, sempre altezzoso, di chi usa per gli occhi per guardare come è vestito qualcuno, che usa le orecchie per ascoltare quanto sia rozzo il suo timbro di voce. Io parlo di usare gli occhi e le orecchie e altri occhi e orecchie, più nascosti, per ascoltare le cose che non si vedono e non fanno rumore. Le tristezze, la punta di segreto dentro ciascuno di noi, dentro ciascuno di loro.
Capita, certe volte, di non incontrare nessuno per cui valga la pena di indagare così. Passano settimane, a volte mesi, come con gli occhi tappati, le orecchie sigillate, il cuore degli altri resta muto per noi. Poi un’espressione, un lampo di comprensione ed ecco ritorna l’amore per l’altro, l’amore incondizionato per l’altro in tutto il suo mistero. Così è stamattina. Così è questa ragazza aggrappata al corrimano.
Seduto al mio posto – accanto, una vecchia con la busta della spesa, più in là un ragazzino biondo come covoni – appoggio la testa sui gomiti e la osservo. Si morde le labbra laccate di rosso. Le inumidisce e fa come per aprirle su una parola che manca. È qui, ma altrove. Dietro le paratie degli occhi rivive un lontano passato o un passato vicino, magari una scena di qualche momento fa, un dialogo forse; oppure immagina, immagina cose non ancora accadute, cose che non accadranno mai o forse le capiteranno proprio ora, non appena le porte si spalancheranno sulla sua fermata. È bello, fa sentire potenti congetturare.
Adesso la prende un brivido. Fa una mossa come per chiudere una spalla sull’altra, per scomparire con una piroetta nell’aria consumata, greve di spezie e sudore, che la circonda. So questo: so che non vorrebbe essere qui. Non vorrebbe essere qui e non vorrebbe neanche essere altrove. Più di tutto, non vorrebbe essere. Ma è, è, e si artiglia al corrimano con tanta forza disperata che lo divellerebbe, se non fosse che il suo peso è così infinitamente trascurabile.
Parlarle, farle un cenno non avrebbe senso. È troppo persa in qualcosa dentro se stessa per accorgersi di me. Per accorgersi di qualsiasi cosa, credo. Quando qualcuno la urta, si sposta come per un riflesso, riaggiustandosi nella posizione di prima come una molla deformata. Non dice niente, i lineamenti non le protestano.
Il suo viso racconta però una storia che conosco, una storia che conosco per averla letta già tante volte sul viso di uno sconosciuto e persino nel mio. Persino nel mio, al mattino, davanti allo specchio, le guance non ancora rasate, si racconta la stessa identica storia. E poi c’è la paura, così dolce che avvelena: è questa la storia. Storia di aver paura di tutto, storia di spaventarsi da soli, storia di esser soli ad aver paura. Così, questa è la storia della ragazza, la storia che invento io per lei, ma che è plausibile quanto qualsiasi altra, forse persino più plausibile della sua vera:

la ragazza è appena uscita da un colloquio di lavoro. La ragazza ha indossato i suoi vestiti migliori, si è truccata come meglio poteva. Non bene, non è capace, non è bella. Il suo nome è stato chiamato, si è seduta, ha parlato con voce di chi finge di essere un altro, un altro senza paura. All’altro capo della scrivania, l’uomo ha annuito spiandole il reggiseno bianco dietro la camicetta bianca traforata. Un vezzo di eleganza, ma ora un errore così da poco. La ragazza si è accorta che l’uomo non la ascoltava, la ragazza si è accorta che non guardava proprio lei. La ragazza si è alzata, ha stretto la mano che le veniva tesa sconcertata, ha detto: « Grazie, non mi intessa più ».

la ragazza sta andando dall’uomo che ama. Non l’ha ancora mai visto, ma che l’ama lo sa. Lo sa perché si consuma gli occhi di pianto e la gola di paure che ingoia, ingoia. Pianger sempre non si può. La ragazza sta andando e non vorrebbe andare. Non vorrebbe andare, perché sa che andando si rovina tutto, che la realtà compiuta incrina la perfezione della fantasia. Sa di non essere bella, sa di non essere truccata bene e nel suo cuore gonfio di angoscia queste piccole stupidaggini hanno importanza, perché in amore è così. Quando le porte si apriranno, la sua mano si staccherà dal corrimano, le sue gambe cammineranno via, farà forza e sbucherà dalle scale buie sulla piazza sfolgorante di sole, il Duomo appoggiato davanti come un merletto. Quando le porte si apriranno, avrà voglia di fuggire. Non fuggirà.

Di storie come queste, il suo viso e le sue mani ne raccontano milioni. E così il viso della vecchia con la busta, così quello del ragazzino biondo grano. E tirarsi indietro, non leggerle, è un misfatto che compiamo contro noi stessi, privandoci della possibilità di esercitare sensi segreti, più sensibili dei nostri cinque sensi. Di questo ci priviamo, della possibilità di alzarci dal nostro posto, avvicinarci a quella ragazza, staccarle le dita dal corrimano, una per una e, mentre lei alza la testa come per chiederci perché o forse per insultarci di una libertà che non capisce, dirle la parola che stava aspettando:
« Non avere paura. »
C’è una parola così per tutti. C’è una parola perfetta che districa il nodo segreto in ciascuno, che apre la paratia e fa traboccare gli occhi di lacrime di squisita gratitudine. C’è un pianto premuto in fondo alla gola di ciascuno. Basta azzeccare una parola per evocarlo.
Le cola il trucco sulle guance. Quasi non capisce perché quella parola sia arrivata da lei. Perché se la meritava, ecco perché, ce la meritiamo tutti.
« Non avere paura. Avrai paura sempre, ma non voglio che tu la abbia proprio adesso che posso vederti. »
La ragazza fa sì con la testa. Mi sorride un pochino. E il suo sorriso spalanca le porte sulla mia fermata. La sua non è ancora arrivata, la sua è più in là, dove non posso più vederla, dove la sua paura esploderà di nuovo contro la solidità fredda del corrimano. E non ci sarà nessun altro a vederla.


Di Chiara Pagliochini

Nessun commento:

Posta un commento