Andrew Wyeth |
E poi c’è la paura, così dolce che avvelena. La
leggi nella piega del braccio congestionato che si artiglia disperatamente al
corrimano. E vedi un altro braccio, un’altra piega, corrimano di carta che hai
letto una volta, tanto tempo fa, « her hands clutched the iron in frenzy ».
Tutti i mari del mondo le si rovesciano sul cuore.
Il braccio appartiene a una ragazza non bella. Dalla
punta dell’indice si risale lungo i torrenti viola delle vene gonfie fino alla
spalla e al collo, un collo corto che sostiene un mento lungo, una bocca
piccola e serrata, un grosso naso e occhi terrorizzati. La fronte è raggrinzita
lungo trincee di una battaglia eterna, eternamente persa. Impercettibilmente scrolla
la testa, di tanto in tanto, come per assicurarsi che i suoi capelli siano
sempre lì, che la ciocca rosso cupo le ricada sempre allo stesso modo sulla
tempia. È molto truccata, non bene.
C’è qualcosa in lei, aggrappata a questo
corrimano, che grida la sua voglia di gridare. Se potesse, se lo scomparto della
metro non fosse così gremito di donne e turisti giapponesi e signori con la
ventiquattrore e pakistani, la sua bocca piccola e mal disegnata si aprirebbe
in un urlo da cui forse non uscirebbe alcun suono. Ma sarebbe lo stesso
spaventoso, spaventoso, perché il dolore è così.
Credo di essere l’unico, tra le persone che
conosco, a prendersi così tanto disturbo per persone che non conosco affatto. È
che non me la sento di ignorarle. Sì, so che si può solcare il mondo senza
sentirsi attraversati dalle linee delle vite altrui, so che si può voltare la
testa, affondare il naso in un libro, sprofondare in uno stordimento acustico
dentro le cuffie dell’mp3, ma so anche che tutto ciò sarebbe da parte mia un
atto di codardia, il venir meno al dovere umano della curiosità. Perché la
curiosità – esser curiosi della tristezza su un viso sconosciuto, per esempio –
è in qualche modo un dovere, una prova che non siamo al mondo per i fatti
nostri, ma per avere a cuore i fatti degli altri, anche di chi non conosciamo. E
non parlo di quell’atteggiamento critico, sempre altezzoso, di chi usa per gli
occhi per guardare come è vestito qualcuno, che usa le orecchie per ascoltare
quanto sia rozzo il suo timbro di voce. Io parlo di usare gli occhi e le
orecchie e altri occhi e orecchie, più nascosti, per ascoltare le cose che non
si vedono e non fanno rumore. Le tristezze, la punta di segreto dentro ciascuno
di noi, dentro ciascuno di loro.
Capita, certe volte, di non incontrare nessuno
per cui valga la pena di indagare così. Passano settimane, a volte mesi, come
con gli occhi tappati, le orecchie sigillate, il cuore degli altri resta muto
per noi. Poi un’espressione, un lampo di comprensione ed ecco ritorna l’amore
per l’altro, l’amore incondizionato per l’altro in tutto il suo mistero. Così è
stamattina. Così è questa ragazza aggrappata al corrimano.
Seduto al mio posto – accanto, una vecchia con
la busta della spesa, più in là un ragazzino biondo come covoni – appoggio la
testa sui gomiti e la osservo. Si morde le labbra laccate di rosso. Le inumidisce
e fa come per aprirle su una parola che manca. È qui, ma altrove. Dietro le
paratie degli occhi rivive un lontano passato o un passato vicino, magari una
scena di qualche momento fa, un dialogo forse; oppure immagina, immagina cose
non ancora accadute, cose che non accadranno mai o forse le capiteranno proprio
ora, non appena le porte si spalancheranno sulla sua fermata. È bello, fa
sentire potenti congetturare.
Adesso la prende un brivido. Fa una mossa come
per chiudere una spalla sull’altra, per scomparire con una piroetta nell’aria
consumata, greve di spezie e sudore, che la circonda. So questo: so che non
vorrebbe essere qui. Non vorrebbe essere qui e non vorrebbe neanche essere
altrove. Più di tutto, non vorrebbe essere. Ma è, è, e si artiglia al corrimano
con tanta forza disperata che lo divellerebbe, se non fosse che il suo peso è
così infinitamente trascurabile.
Parlarle, farle un cenno non avrebbe senso. È troppo
persa in qualcosa dentro se stessa per accorgersi di me. Per accorgersi di
qualsiasi cosa, credo. Quando qualcuno la urta, si sposta come per un riflesso,
riaggiustandosi nella posizione di prima come una molla deformata. Non dice
niente, i lineamenti non le protestano.
Il suo viso racconta però una storia che
conosco, una storia che conosco per averla letta già tante volte sul viso di
uno sconosciuto e persino nel mio. Persino nel mio, al mattino, davanti allo
specchio, le guance non ancora rasate, si racconta la stessa identica storia. E poi c’è la paura, così dolce che avvelena:
è questa la storia. Storia di aver paura di tutto, storia di spaventarsi da
soli, storia di esser soli ad aver paura. Così, questa è la storia della
ragazza, la storia che invento io per lei, ma che è plausibile quanto qualsiasi
altra, forse persino più plausibile della sua vera:
la
ragazza è appena uscita da un colloquio di lavoro. La ragazza ha indossato i
suoi vestiti migliori, si è truccata come meglio poteva. Non bene, non è
capace, non è bella. Il suo nome è stato chiamato, si è seduta, ha parlato con
voce di chi finge di essere un altro, un altro senza paura. All’altro capo
della scrivania, l’uomo ha annuito spiandole il reggiseno bianco dietro la
camicetta bianca traforata. Un vezzo di eleganza, ma ora un errore così da
poco. La ragazza si è accorta che l’uomo non la ascoltava, la ragazza si è
accorta che non guardava proprio lei. La ragazza si è alzata, ha stretto la
mano che le veniva tesa sconcertata, ha detto: « Grazie, non mi intessa più ».
la
ragazza sta andando dall’uomo che ama. Non l’ha ancora mai visto, ma che l’ama
lo sa. Lo sa perché si consuma gli occhi di pianto e la gola di paure che
ingoia, ingoia. Pianger sempre non si può. La ragazza sta andando e non
vorrebbe andare. Non vorrebbe andare, perché sa che andando si rovina tutto,
che la realtà compiuta incrina la perfezione della fantasia. Sa di non essere
bella, sa di non essere truccata bene e nel suo cuore gonfio di angoscia queste
piccole stupidaggini hanno importanza, perché in amore è così. Quando le porte
si apriranno, la sua mano si staccherà dal corrimano, le sue gambe cammineranno
via, farà forza e sbucherà dalle scale buie sulla piazza sfolgorante di sole,
il Duomo appoggiato davanti come un merletto. Quando le porte si apriranno,
avrà voglia di fuggire. Non fuggirà.
Di storie come queste, il suo viso e le sue
mani ne raccontano milioni. E così il viso della vecchia con la busta, così
quello del ragazzino biondo grano. E tirarsi indietro, non leggerle, è un
misfatto che compiamo contro noi stessi, privandoci della possibilità di
esercitare sensi segreti, più sensibili dei nostri cinque sensi. Di questo ci
priviamo, della possibilità di alzarci dal nostro posto, avvicinarci a quella
ragazza, staccarle le dita dal corrimano, una per una e, mentre lei alza la
testa come per chiederci perché o forse per insultarci di una libertà che non
capisce, dirle la parola che stava aspettando:
« Non avere paura. »
C’è una parola così per tutti. C’è una parola
perfetta che districa il nodo segreto in ciascuno, che apre la paratia e fa
traboccare gli occhi di lacrime di squisita gratitudine. C’è un pianto premuto
in fondo alla gola di ciascuno. Basta azzeccare una parola per evocarlo.
Le cola il trucco sulle guance. Quasi non
capisce perché quella parola sia arrivata da lei. Perché se la meritava, ecco perché,
ce la meritiamo tutti.
« Non avere paura. Avrai paura sempre, ma non
voglio che tu la abbia proprio adesso che posso vederti. »
La ragazza fa sì con la testa. Mi sorride un
pochino. E il suo sorriso spalanca le porte sulla mia fermata. La sua non è
ancora arrivata, la sua è più in là, dove non posso più vederla, dove la sua
paura esploderà di nuovo contro la solidità fredda del corrimano. E non ci sarà
nessun altro a vederla.
Di Chiara Pagliochini
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