mercoledì 26 settembre 2012

L’invenzione


a mia nonna Gensina

Ricordo ancora com’era a casa quando arrivava una lettera da Pasqualino. Il postino veniva sulla bici sbilenca, con un moccioso arrampicato sulla canna, e i freni fischiavano giù per la discesa di Cecanibbi. Si fermava sull’aia in un gran polverone, tra lo stridio dei freni, e mi chiamava a gran voce dalla finestra:
« Gensina, scenda, scenda! »
A casa c’ero sempre io, che ero la più piccola. Mi toccava fare il pranzo per quando il babbo e la mamma tornavano dai campi. Così, quando arrivava una lettera da Pasqualino, ero io la prima a metterci le mani sopra e me la stringevo al petto e la baciavo e la ribaciavo, tutta sudicia e sgualcita com’era. Il postino, che si chiamava Gianni, mi faceva un sorriso grosso, il suo marmocchio uno sberleffo, e mi pregava di salutargli i miei. Io gli dicevo, « Presenterò! », e lui si ricacciava in testa il berretto rotondo. Poi dava una spinta ai pedali e sfilava via sollevando un nugolo di pagliuzze. Passava tra le galline che si scansavano con un chioccio indispettito e s’arrampicava su per la salita. Ogni settimana era la stessa cosa.
Le lettere di Pasqualino, però, non arrivavano tutte le settimane. Anzi, se ne arrivava una al mese era già tanto. Questo non m’impediva, però, di sperarci sempre e di pensare che quel « Gensina, scenda! » m’avrebbe portato altre notizie di mio fratello, e chissà che storie strampalate stavolta. Io non sapevo ancora leggere bene, così la lettera la appoggiavo sulla panca vicino alla porta, in attesa che ritornasse la Marina. Me la spiavo mentre rimestavo i fagioli nel callaretto e canticchiavo intanto per passare il tempo. Poi dalla finestra veniva la voce del babbo, il suono d’uno scaracchio, e mamma che saliva le scale in un fruscio della vestaglia, le gambe secche e scorticate.
« Gensina, è pronto, è pronto? » mi chiedeva ancora prima di salutarmi e poi mi faceva scansare e s’appropriava del mestolo, come se i fagioli fossero roba sua e non voleva che potessi accamparci qualche pretesa. Papà si sedeva a tavola con le dita unte di grasso stampate sulla tovaglia e mi guardava da sotto le sopracciglia sudate, poi mi chiedeva di andare a dargli un bacio. Io ero la sua piccola, « la sua bestiaccia », e per me aveva sempre una parola di riguardo. Aveva anche le cinturate di riguardo, ma solo quando lo mandavo fuori dei gangheri.
La Marina arrivava in cucina tutta vestita come una signorina. Passava sempre dalla camera a pettinarsi quando tornava dai campi, come se in cucina ci avesse il moroso. Al paese il moroso ce lo aveva, ma il babbo non lo sapeva ancora. Io li avevo visti baciarsi dietro il fico e alla fontana, ma mi diceva sempre « tu fa’ la spia e io ti struppio ». Così me lo tenevo per me.
I giorni che arrivava una lettera da Pasqualino la Marina però non passava dalla camera. Era sempre la prima a vederla, perché la mamma e il babbo non sapevano leggere e quindi non si curavano della posta. Dalla cucina io aspettavo impaziente il suo strillo – strillava sempre – e nel cuore mi cresceva tanta ansia e una voglia di star bene.
« Mamma, mamma, è di Pasqualino! »
Solo a quel punto la mamma strillava e si metteva a piangere ancora prima che la lettera fosse aperta. Poi soffiava il naso nel sinale e si sedeva vicino a papà, una mano sulla sua. Il babbo non piangeva: solo alla fine gli trovavi sempre gli occhi lucidi. Allora Marina entrava in cucina tenendo alta la lettera sopra la testa, mi faceva segno di sedermi « zitta e buona » e si schiariva la voce. Piano piano sollevava i lembi della busta, un po’ per fare scena, un po’ per non sciuparla di più. Le dita con le unghie nere spiegavano il foglio. Schiariva la voce un’altra volta.
Le lettere di mio fratello Pasqualino cominciavano sempre così, « Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Come state voi? E Gensina? E la Marina? ». Ogni tanto l’ordine cambiava e metteva la Marina prima di me, ma io non ci restavo male. Questa era l’unica parte uguale. Il resto era diverso ogni volta, perché diverse erano le cose che gli capitavano ed erano sempre buffe e divertenti e sembrava che, invece di essere prigioniero, fosse partito per una scampagnata. Così i pianti che ci facevamo erano sempre di gioia e mai eravamo tristi perché stava male.
Pasqualino lo avevano preso a Lubiana nell’ottobre del 1944. Adesso so che era un posto lontano, così lontano che non mi capacito di come fosse finito laggiù. Che ci aveva a spartire con quelle terre e quella guerra e quel modo di parlare? Certo, non aveva deciso lui di andarci, lui che aveva sempre pensato di aiutare il babbo col tabacco e mettere su famiglia e venire a stare a casa con la moglie e dieci, quindici bambini. Però alla guerra ci era dovuto andare lo stesso e non aveva fatto in tempo a ingravidare la Lucrezia, che adesso era la morosa di un altro e non ci salutava più per strada. Per la Lucrezia non mi dispiace, lo dicevo che era una smorfiosa (a costo di buscarmi un boccatone).
Nell’ottobre del 1944 mio fratello lo avevano pescato che se la batteva nella macchia e, prima che potesse darsi alla fuga, s’era ritrovato la canna d’un fucile puntata alla schiena e gli avevano detto, « Marsch », e qualche altra parola brutta tedesca, sicuro. Adesso erano sei mesi che stava a Francoforte, una città ancora più lontana, tedeschissima, e faceva i lavori per una famiglia di lì. La famiglia non era malaccio, lo diceva in tutte le lettere, anzi lo trattavano bene e la domenica gli permettevano di andare al mercato, guardato a vista, s’intende, ma sempre due passi erano. Sapeva parlare anche un po’ di tedesco, ma non ci scriveva mai che parole.
Dopo i saluti poteva venire qualsiasi cosa. Tra « E la Marina? » e il resto, la Marina faceva una pausa e ci guardava dritto in faccia, come se non sapesse come andare avanti, come se avesse disimparato a leggere. Poi mandava giù un groppo di lacrime, rifissava gli occhi alla lettera e seguitava.
Una lettera che mi ricordo diceva così:
« Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi come state? E Gensina? E la Marina?
Non ci crederete, ma oggi mi hanno dato per pranzo una bistecca. Ci sono proprio rimasto. Ho alzato la testa per chiedere se la potevo mangiare tutta e la signora mi ha detto di sì. Cavolo, una bistecca, gli è saltata una rotella. E tu babbo l’hai scannato il maiale? E quanti quintali faceva quest’anno? Vorrei tanto essere lì con voi e cuocere la pizza sotto il fuoco colle salcicce. Ma voi non state in pensiero, perché qui mi danno da mangiare la bistecca e quindi va tutto da Dio, solo che mi mancate.
Un saluto alla Lucrezia se la vedete. E ditele che non importa se s’è messa con Primetto. Aveva ragione la Gensina, è una smorfiosa e basta. E tanto me la sono rifatta anch’io la morosa qui. Alla faccia sua.
Vi abbraccio, vi voglio bene. Torno presto. »
Ma presto non tornava e il mese dopo lasciavo un’altra lettera sulla panca e di nuovo Marina strillava e di nuovo i suoi occhi si perdevano nel vuoto e inghiottiva il pianto.
« Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi come state? E la Marina? E Gensina?
Qui sono tanto buoni con me. Mangio tanto e sono pure ingrassato e non sgobbo come a casa. È meglio qui che stare alla guerra, dove potevo rimanerci secco. Ce la spassiamo, insomma, e vorrei che foste qui anche voi perché staremmo sempre a pancia all’aria. Qui nessuno va a cogliere il tabacco per gli altri, sono tutti puliti, le camicie stirate e lavorano nelle fabbriche e negli uffici e non vedi in giro nessuno con le scarpe bucate. È un posto strano, ma mi ci trovo bene.
Se potessi vi manderei dei soldini, ma non me li fanno mandare, però ho messo da parte un bel gruzzoletto e faremo festa quando torno. Accenderemo il fuoco sull’aia e arrostiremo il capretto e chiameremo Faustino: suona ancora la fisarmonica? Mi ricordo che era bravo parecchio e io posso sempre accompagnarlo con la chitarra. Ma poi l’avete venduta la mia chitarra?
Fatemi sapere come state. Vi voglio tanto bene, so che ci vedremo presto. »
E ancora, settimane, settimane.
« Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi come state? E Gensina? E la Marina?
Oggi vi voglio parlare della mia fidanzata e se il babbo mi darà la benedizione me la riporto a casa e facciamo un sacco di bambini. È una come non se ne trovano giù da noi, bionda bionda e con la pelle come una bambola. Si chiama Hella ma io la chiamo sempre Nena, come la nonna, e lei ride scoprendo i denti grossi perché le sembra un nome divertente. È tedesca, ma è a posto. È gentile. La sua famiglia non la conosco ancora, ci vediamo solo i giorni di mercato. Sembra una poverella come noi, ma ha detto che mi presenta ai suoi. Ed è davvero tanto buona, quindi la mamma non si deve preoccupare. E poi le sto insegnando l’italiano, quindi quando viene sa già tutte le parole e non dovete preoccuparvi di niente. E non preoccupatevi, perché sono serio e casini non ne combino. E lo dico soprattutto per il babbo, che lo so che sta in pensiero.
Scrivetemi cosa ne pensate e se faccio bene a parlare col suo babbo. Ma se mi dite di no, non lo faccio, state sicuri. Soprattutto la Gensina voglio sapere cosa pensa, perché le mie morose non le stanno mai simpatiche.
Vi abbraccio forte, ci vediamo presto. »

Ma non ci siamo rivisti tanto presto. Però ci siamo rivisti e forse è solo questo che conta. Pasqualino ci ha messo cinque anni per tornare a casa. E quando è tornato era da solo, nessuna Hella, nessuna Nena, ed era sciupato, con la barba, secco come un chiodo. S’è presentato sull’aia senza scriverci niente, così, dalla mattina alla sera. Io avevo già dodici anni quand’è tornato, ormai sapevo leggere e avevo scoperto l’inghippo. Marina s’era sposata col suo moroso ed era andata a stare alla Pizzichina.
Quando Pasqualino è tornato, non ha voluto raccontarci niente. E mi ricordo che la mamma e il babbo si stupivano, perché per tanti anni ci aveva raccontato tante cose belle. E le cose erano due: o era diventato cattivo o le aveva dimenticate tutte. Non abbiamo fatto nessuna festa sull’aia. Cioè, l’abbiamo fatta, ma lui non si divertiva. E gli è rimasta ancora oggi un’ombra negli occhi che non era mai scesa sulle sue parole.
Quando Pasqualino è tornato, la Marina l’ha salutato con un certo imbarazzo, dicendogli qualcosa nell’orecchio. Io penso di sapere che cosa gli ha detto, perché ormai sapevo leggere, al contrario della mamma e del babbo.
Sapevo leggere ed ero andata a riaprire quelle lettere una per una e avevo visto che dopo « Cara mammina, caro babbo, io sto bene. Voi come state? E Gensina? E la Marina? » non dicevano mai niente, erano tutte righe nere, scarabocchiate con la penna, di parole che la censura non aveva fatto passare, di storie che non ci aveva potuto raccontare. Così la Marina, che era l’unica che sapeva leggere, inventava per noi quelle parole e quelle storie, tessendo per noi un’invenzione fantastica, un’invenzione che ci scaldava il cuore.

 Di Chiara Pagliochini

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