Campo di grano con volo di corvi, Vincent Van Gogh |
Ha un tasto il crepuscolo che lo usano per
spegnere le cicale.
Le cicale hanno cantato per tutto il giorno. Il
loro canto si spande nei campi come un nastro, una banda sonora continuamente
srotolata e arrotolata.
Quando arriva il crepuscolo, al canto delle
cicale non ci si fa più caso. È diventato un suono d’ambiente, il plic plic del
rubinetto che perde da sempre, il battito del cuore, quella musica celeste di
cui parlavano gli antichi, quella dei pianeti che ruotano sui cardini, delle
stelle che emettono luce pulsante.
Ma quando arriva il crepuscolo d’un tratto
succede. Zabuuuuum. Come se andasse via la luce o tagliassero un cavo. Come se
il mondo rimanesse tutto all’oscuro. Ma sono solo le cicale. Le cicale non cantano
più, si sono spente, gli zampini hanno smesso di grattare. A non averlo più
nelle orecchie, il canto manca come una luce spenta. Si spalanca un vuoto che
non si riesce ad accendere. Click. Non c’è più click. Nessuno riaccende le
cicale. Hanno smesso di cantare, nessuno sa perché.
Poi, piano piano, si affacciano i grilli.
Timidi, dapprima, come se tutto quel cicaleccio li avesse resi vergognosi.
Timidi che la loro voce, a confronto, sia così sottile e velata che non
s’avverte neanche. Ed eccoli che ricostruiscono pazientemente una strenna musicale,
dipanano lo spartito, sistemano gli archetti.
Non c’è più il silenzio. Non c’è più lo
spaventoso silenzio che ti aveva mozzato il cuore. La terra ha di nuovo il suo
rumore, velato, un rumore più adatto alla notte, ai cuscini, alla rugiada che
scende gocciando sui fili d’erba. Sul capo si posa una calma mansueta. La notte
diventa una bestiolina docile da accarezzare.
Ma cosa vuoi accarezzare, se non hai nessuno da
accarezzare?
Accucciata nell’erba, Milena si stringe le
caviglie. È l’estate dei suoi diciotto anni.
Quando hai diciotto anni, le notti estive
sembrano grandi e profumate. Le stelle nel cielo seguono archi altissimi.
Vorresti prenderne una e cavalcarla fino allo zenit, tanto senti di poter far tutto.
Accucciata nell’erba, Milena si stringe le
caviglie. Non può fare niente. Solo vomitare.
Il vomito esce con un rivoletto giallo dalla
bocca color corallo e cola in mezzo alle gambe. Impiastra le mani, le caviglie,
tutto. Le scarpe sono laccate di fresco.
« Hai fatto? »
No, un altro conato scuote lo stomaco e riporta
a galla qualcosa. Non c’è più molto.
« Un fazzoletto » è la voce di Milena, bassa,
arrochita. Solleva leggermente il busto. Una mano le porge un fazzoletto,
allunga le dita a stringerlo. Si pulisce la bocca, lo appallottola, lo lascia
cadere. Raddrizza la schiena e sistema i capelli tirandoli indietro con i
palmi.
Due occhi in mezzo al buio la guardano. È
Lucia.
« Voglio andare a casa » le dice.
Lucia non dice niente. Le avvolge i fianchi con
un braccio e la aiuta a camminare via. L’erba sulla costa è alta e tutta un
frinire. Più lontano qualche lucciola fa scintille come una lampadina guasta.
Lucia sa di buono, di profumo, di pulito. Milena si odora le mani: sanno ancora
di vomito.
Non parlano. Milena è felice che Lucia non
parli. Non ha bisogno di spiegarle nulla. Né di Luca né niente.
« Ti dispiace andare a casa così presto? »
domanda Milena. Le sembra una buona domanda da fare, una domanda per dimostrare
a Lucia che le vuole bene.
« No, no. Mi annoiavo. »
« Anche io. »
Non è vero, era troppo impegnata a odiare per
annoiarsi. Odiare quelle stupide ragazzine vestite bene, coi loro abitini
plissettati, i rossetti rossi, i flash delle macchinette fotografiche. Odiare
Luca che le guardava e offriva da bere e faceva lo stupido. E vuotare uno dopo
l’altro quei bicchieri di plastica colmi di vino scadente. Non c’era stato
tempo per la noia.
« Una merda di festa. »
« Sì. »
Chissà se Luca si starà chiedendo dove sia.
Milena sgrana gli occhi alla notte e non lo sa. Vorrebbe tornare indietro,
tornare alla festa, ma ha già detto « Voglio andare a casa » e sembrava una
cosa così ragionevole, dopo aver vomitato anche l’anima per colpa di uno stronzo.
Ma adesso no, non sembra più così ragionevole, perché se quello stronzo non
fosse poi così stronzo… « E poi ha detto che mi deve parlare… »
« Torniamo indietro » sbotta.
Lucia si ferma, la guarda. « Alla festa? »
« Sì. »
Non protesta, Lucia. Si volta e prende a
camminare nell’altro verso. È come se non avesse una volontà sua, come se il
suo ruolo non fosse che di raccogliere gli altri quando vanno in pezzi, di
accostare i cocci per i bordi, uno a uno, e rimetterli insieme con un
fazzoletto. Milena odia Lucia. La odia perché sta sempre zitta. Non è vero che
le vuole bene.
« Luca è uno stronzo » dice. Prova a intavolare
una conversazione, ma Lucia si stringe appena nelle spalle, non reagisce.
«
Ha detto che mi doveva parlare. »
«
È per questo che stiamo tornando là? »
«
Sì. »
Lo spiazzo della festa, in mezzo al campo, è
una rovina di bottiglie. Bicchieri di carta ammaccati e cenci di festoni. Una
ragazza con una gonna corta è sdraiata a pancia in sopra su una panchina. Tra le
gambe divaricate occhieggia un tanga. Milena lo trova di cattivo gusto. Un tipo
cammina lungo una linea immaginaria a occhi chiusi. Ha le braccia spalancate
come due ali d’aereo e fatica a reggersi in piedi nonostante sia solidamente
poggiato a terra, ancorato a un paio di Hoogan. Luca non si vede.
« Mile! » è la sua voce, arriva da dietro.
Milena si volta, Lucia sussulta. Luca le
raggiunge e si ferma.
« Vi sono venuto dietro quando ho visto che vi
allontanavate. Tutto bene? »
« Ha vomitato » risponde Lucia. Milena si
chiede chi le abbia sciolto la lingua, chi le abbia permesso di parlare al
posto suo.
« Mi dispiace. »
Gli dispiace. Cazzo, non deve dispiacergli. «
Porca puttana, non devi fare la parte della ragazzina che gli muore dietro e
vomita perché è depressa. Cazzo, cazzo. » Vorrebbe prendere Lucia per i capelli
e strapparglieli. Ha tanti capelli Lucia, lunghi, raccolti in una treccia a
spina di pesce. È bella Lucia, il viso cosparso di lentiggini. Non sembrava
così bella in mezzo al campo. È bella. Odia anche lei.
« Ti senti meglio adesso? »
« Sì » almeno a questo, Lucia l’ha lasciata
rispondere.
« Fai due passi con me? »
Luca e Lucia si scambiano un’occhiata. È
brevissima, soltanto Milena la nota.
« Andiamo. »
È da tutta la sera che aspetta questo momento.
Non ci sperava neanche più. Quando Luca ha detto « Devo parlarti di una cosa »,
Milena non si è scomposta, non ha sorriso. Ha chiesto « Di cosa? », ma lui ha
risposto « Stasera ». E adesso è stasera, è stasera da tante ore e Luca ancora
non le ha parlato e ha fatto il cretino con tutte, a Marta ha persino alzato la
gonna (quelle gonne larghe bianche, vaporose come una corolla, che non sei
Marylin e non sarai mai Marylin e che cazzo te le metti a fare?). Ma adesso è
più stasera di prima. Adesso Milena cammina con Luca rasente il campo, il
braccio di Milena dentro il braccio di Luca, il passo di Milena col passo di
Luca. Non vorrebbe lasciarlo mai più. Giorno dopo giorno, per tutta l’estate,
Milena ha amato Luca di un amore viscerale. Il primo pensiero al mattino, Luca!
Il pensiero quando ci si veste, Luca! Il pensiero di quando ci si guarda allo
specchio, Luca, non sono abbastanza bella. La certezza di non essere abbastanza
bella non solo per Luca, ma per Marco e Giacomo e Nicola. La certezza di non
essere le ragazze sui giornali di moda. Il vestito indosso a loro sta sempre
meglio che indosso a te.
« A diciotto anni è normale. È un disturbo di
percezione. »
Un disturbo di percezione. La mamma di Milena
fa la psicologa. È stupida. E una gran troia. Lo sanno tutti che mette le corna
a papà. La mamma di Milena apre l’armadio di Milena e i vestiti di Milena le
stanno sempre meglio di quanto non stiano a Milena. La mamma di Milena è la
prima della lista, la prima della lista dell’odio.
Ma adesso c’è la sera, c’è il campo, c’è Luca.
Luca sta sorridendo. Milena sorride. I denti di Luca sono bianchi, color luna.
Le guance sono lisce e sbarbate, i capelli corti. Milena ama Luca perché non fa
mai caso a come è vestita, perché le dice che sta bene (ok, solo ogni tanto)
anche senza trucco, perché è l’unico con cui riesca a parlare. Luca non odia
nessuno, ama tutti. In lui l’odio di Milena si stempera e si frantuma. Per
amore di Luca, amerebbe tutti. Ma è troppo difficile se anche Luca non ama lei.
« Ti sei divertita? »
« No. »
« Ti si legge in faccia. »
« Mi danno fastidio. »
« Chi? »
« Tutte quelle ragazze. Finte. »
« Lucia non è finta. »
« Un tantino meno finta della media. »
« Non ti è simpatica? »
« Non lo so » Milena scrolla le spalle, non ha
voglia di parlare di Lucia.
« Però è stata carina con te. »
« Anch’io sarei stata carina con lei se avesse
sboccato anche l’anima. »
« Non dovevi bere così tanto. »
« Non ho bevuto tanto. Ero triste. »
« Perché eri triste? »
Glielo dico, non glielo dico. Milena non lo sa.
Dovevano parlare, e non si stanno dicendo niente. Aveva pensato che si sarebbe
deciso del suo destino, se non del suo destino almeno della sua felicità, ma lo
stanno decidendo a sfilettate di nulla.
« Perché dovevi parlarmi e sembrava che non
volessi » glielo ha detto. Un piccolo accenno di ‘qualcosa’.
« C’era gente. Non potevo parlarti là in mezzo.
»
« Potevi sorridermi. »
« Non l’ho fatto? »
« No. »
« Mi dispiace. »
No, Luca, non devi dispiacerti, devi sentire
che sono arrabbiata. Sono arrabbiata, arrabbiata, un furore che mi sale su
dalla gola agro e mi rizza tutti i peli delle braccia. Devi dirmi quello che
hai da dire o sdraiarmi in mezzo al campo e baciarmi e slacciarmi la salopette
e baciarmi il seno. Non devi dispiacerti, Luca, devi ricordarmi perché siamo
qui. Milena gli appoggia la testa contro l’avambraccio. Guarda in su. Lontano
lontano formicolano le stelle. Le piacerebbe guardarle distesa sulla panca come
la ragazza con la gonna corta. Le piacerebbe guardarle riversa tra le stoppie,
le caviglie di Luca che sfiorano le sue, le sue mani nei suoi capelli, il
profumo dei loro corpi che si amano.
« Mile, mi sono messo con Lucia. »
Sulle prime non è chiaro. Milena non capisce
cosa stia dicendo. Non capisce perché non ha senso. Milena sa che un’emissione
di fiato è sempre un’emissione di senso e, se è Luca che parla, allora quel
senso è tanto più legittimo aspettarselo. È un ragazzo intelligente Luca.
« Con Lucia. »
« Sì. »
« Era questo che dovevi dirmi? »
« Sì. »
Qualcuno inghiotte la saliva. Fa un rumore
tremendo, come un crocchio per l’aia.
« È una brava ragazza. Sono contenta per te. »
La frase si è formata così spontaneamente sulle
sue labbra che non ha dovuto cercare neanche la forza per mentire. Le sue
labbra hanno mentito, lei non è più lì. Lei è nel campo, accucciata nell’erba
che si stringe le caviglie. E Lucia le copre le spalle con un fazzoletto in
mano, come se con quel misero pezzo di carta potesse asciugare tutto il vomito
che fluisce e continua a fluire e quasi zampilla dalla pelle e dai bulbi
oculari. È un vomito cosmico che tutto sommerge, che tutto esaspera come lo
strillo delle cicale. È un vomito che solo un buon tasto – non stasera, non
oggi – spegnerà.
Di Chiara Pagliochini
Complimenti. Di cuore! Non smettere di scrivere, hai talento.
RispondiEliminaHo scoperto questo blog per caso e sono rimasto incantato.
ciao,
Luca