domenica 18 novembre 2012

Esploratori


Free me,

free me,
free me from this world. 
We don't belong here:
it was a mistake imprisoning our souls.
Can you free me,

free me from this world?


Explorers, Muse


Aveva uno sguardo negli occhi, uno sguardo certe volte che ti veniva da piangere solo a guardarlo, un po’ per la pena che ti faceva, un po’ per la pena che ti facevi tu per non saper che farci. Era lo sguardo dei disperati, dei dispersi, quello sguardo che qualsiasi clandestino ebbe su qualsiasi molo che non fosse il suo, quello sguardo che ciascun abitante del vasto cielo avrebbe su un pianeta non suo. Era lontano ed era solo, perduto chissà se in un passato remoto o in un futuro pauroso, ovunque ma non lì, ovunque ma non lì con te, trasportato altrove, rapito e irrimediabilmente distante. Il tuo sguardo, nel ricambiare il suo, era una fune, una mano che gli lanciavi oltre l’abisso, un’offerta di salvazione che lui non raccoglieva mai. Avevamo diciassette anni.
Avevamo diciassette anni e ci piacevano le stesse cose. Ci piacevano le sere fredde e secche, quelle in cui le stelle sono tante ferite pulsanti su un corpo livido. Ci piaceva la terra e le sue morbidezze, il verde multiforme e rotondo delle colline, i fiori che spuntavano ai bordi delle strade. Ci piaceva il papavero, rosso da far spavento, e il vino bianco. Ci piaceva tenerci per mano e andare, andare senza saper dove andare, solo per il gusto di sentire le nostre mani l’una nell’altra, strette e sudaticce ma unite. Avevamo diciassette anni e, forse, nei miei occhi, lui vedeva lo stesso sguardo che gli trovavo io, uno sguardo che era sofferenza e spaesamento e prigione e desiderio di affrancarsi. Uno sguardo che metteva le piume per spiccare il volo.
Avevamo diciassette anni. E una sera che eravamo fuori, come sempre, ad andare-andare, io lo guardai nel buio alzando il mento e dissi:
« Facciamo l’amore. »
Lui disse:
« Non so come si fa. »
Io dissi:
« Facciamolo lo stesso. »
Il suo sguardo tremolò un poco, spaventato e comico. Io gli carezzai la guancia e sussurrai che non doveva avere paura. Lui disse:
« Paura non ne ho. Ma non voglio farti male. »
Io dissi:
« Mi fai male sempre. »
Lui disse:
« Mi dispiace. »
Io dissi:
« È bene anche il male che mi fai. »
Lui mi strattonò la mano e camminò verso il ciglio della strada, mi aiutò a saltare il rigagnolo e fu là fermo, sotto la luna grande e bianca, nel campo di fave. Lo abbracciai, le mie braccia troppo corte per tenerlo tutto, troppo deboli per trattenerlo tutto. Mi sentivo come dita che stessero imprigionando una rondine. Chinò il mento e mi baciò. Piano, dapprima, come se avesse paura che potessi andare in pezzi, poi solide le sue mani si intrecciarono dietro la mia schiena e mi strinse a sé e mi sollevò un poco e la bambola di pezza che c’era in me tremò tutta di gioia contro il suo corpo. La grande luna mandò un grande bagliore frastagliato.
Un braccio che ancora sosteneva la mia schiena, mi distese tra le piante, sentii gli arbusti teneri che crocchiavano, sentii la vita fluire via dalla terra per confluire nelle mie spalle, sentii il verde premuto sotto le natiche e il profumo intorno dell’erba calpestata. Il suo viso, gli occhi innamorati e socchiusi, disse:
« Sei sicura? »
Io lo baciai ancora, ancora.
Avevamo diciassette anni, dita confuse, rantolii alieni. Ogni bottone aperto era una meraviglia. Avevamo diciassette anni, ogni porzione di pelle una consistenza da esplorare. Riccioli e boccoli e spunzoni e la stoffa che si spostava con suoni indecisi. Avevamo diciassette anni, faceva freddo e affogavamo di rugiada e lui affogò dentro di me rompendo oggetti e scoperchiando scatole, vento che spazzava stanze vaste e vuote. Fu un dolore lancinante e cieco come di fitta al petto. Ma non era dal petto che veniva. Era un dolore di regioni inesplorate, di foreste vergini falciate via.
Lo guardai e i suoi occhi erano lontani quanto non erano mai stati, così lontani che non si sapeva nemmeno se sarebbero tornati indietro, se il mondo che li aveva assorbiti li avrebbe risputati intatti.
E così, fu per salvarmi che andai anch’io. Andai, solcai verso la zona profonda in cui lui era, per aprire gli occhi su un pianeta diverso.
Quando aprii gli occhi, lui era lì. Era lì, incerto, fermo a metà del campo con la mano tesa verso di me. Intorno, prati viola e frutti maturi che pendevano dai rami, così pesanti che i rami quasi si spezzavano. Il cielo sopra di noi era bianco e liquido come latte, agitato da maree. Afferrai la sua mano e andammo insieme attraverso il campo, parlandoci e guardandoci e fermandoci ogni tanto per baciarci. E dicevamo che questa era la libertà, questo l’unico posto in cui dovevamo stare, questo il posto per noi, dove ci saremmo sentiti a casa e completi, la terra a misura nostra, dove un solo nostro cenno avrebbe trasformato il panorama in una cascata di luce. Qui noi eravamo re e regina l’uno dell’altra. Qui non c’erano leggi, non si doveva diventare grandi. Non c’era paura, non c’erano regole. Non c’era nessun altro a parte noi. Quell’errore che ci imprigionava, l’errore di esser nati a un mondo che non ci corrispondeva, quel mondo che i nostri occhi lontani e perduti piangevano, ecco, di quell’errore non c’era più traccia. Questa era la nostra vera dimensione. Questo il nostro Paradiso Perduto.
Ma poi lui mi strinse più forte la mano e disse:
« Dobbiamo tornare. »
Io scrollai la testa, non volevo.
Lui disse:
« Non voglio che resti qui da sola. »
Io dissi:
« Rimani anche tu. »
Lui disse:
« Non possiamo. »
Io dissi:
« Qui siamo salvi. »
Lui disse che non si poteva fare nulla, che bisognava raggiungere un certo compromesso. Lui disse che si doveva vivere dove ci avevano posto a vivere, anche se non volevamo, anche se non faceva per noi. Lui disse che il suo mondo ero io, il mio mondo lui, e così potevamo tornare ogni volta che volessimo. Che il Paradiso era sempre, perché eravamo il Paradiso l’uno per l’altra.
Io dissi:
« Ti amo. »
Lui disse:
« Ti amo. »
Quando ci svegliammo nel campo di fave, lo presi per il mento e guardai nei suoi occhi e nel fondo ci vidi riflessa dentro me. 


Di Chiara Pagliochini

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