domenica 13 gennaio 2013

Jules e Nadine

László Moholy-Nagy, 7 A.M. (New Year’s Morning). 

La nebbia saliva dai campi arati come un respiro. Nadine si figurava i semi rabbrividire gentilmente nella terra nera. Il finestrino del treno si apriva sul paesaggio in un alone circolare, pulito con la manica della giacchetta. Nadine guardava fuori dentro quel cerchio, aspettando il fischio.
Il treno doveva entrare a Shrewsbury alle dodici e trenta. Jules l’avrebbe aspettata sulla banchina. Era una bella giornata per fare l’amore.
Pensò a come giocavano con le parole, a come avevano sempre giocato con le parole. “Prendere una stanza” invece di “fare l’amore”, “l’affetto che ti porto” invece di “la voglia che ho di fare l’amore con te”… era una forma di pudore ancora, un modo per non smettere di cullare la propria infanzia, ma aveva anche qualcosa di morboso e di disonesto, che la faceva sentire sporca, impacciata. Usare le parole sbagliate era come un’ammissione di colpevolezza, la prova che c’era qualcosa di cui vergognarsi in una conclusione che avrebbe dovuto essere così naturale. E non era perché credesse in Dio, non era perché ricordasse le imbeccate di sua madre – gli dei e le madri sono fatti per quando sei bambina – ma perché non era una donna ancora e non si sentiva donna e sapeva che diventarlo significava perdere qualcosa. Non sapeva che cosa si dovesse perdere, non era qualcosa che si potesse circoscrivere. Forse quel pudore stesso, forse il sentimento di quella vergogna.
Venne il fischio. Erano le dodici e venticinque. Il piccolo orologio da polso lo annunciava senza alcun timore. Nadine si alzò e prese la valigia dalla rastrelliera, poi attese sulla porta dello scompartimento finché il treno non si fu fermato. Salutò con un cenno del capo una signora che rimaneva seduta. La valigia le sbatteva contro la coscia mentre camminava fino all’uscita più vicina. Un uomo in berretto grigio le sorrise e l’aiutò a scendere dal treno. Pensò che avrebbe voluto che fosse Jules.
Per qualche motivo, Jules non si trovava mai nel punto giusto. Ogni volta doveva strizzare gli occhi per cercarlo e non era mai sicura di averlo individuato finché non erano a pochi passi di distanza. E quasi non alzava gli occhi e non parlava finché non era sicura che fosse lui. La vista le si era stancata per gli anni nella sartoria e il cuore anche le si era stancato e spaurito, non nella sartoria, ma dappertutto.
Stava lì, con la valigia per terra sulla banchina, guardandosi intorno. Lui venne da destra, camminando piano, e vide le sue suole strisciare mentre si toglieva il cappello, un cappello di panno verde, dalla foggia miliare. Alzò la testa.
« Ciao. »
Nadine si sporse sulla punta dei piedi e si appoggiò contro di lui per baciarlo sulle labbra. Jules le restituì un bacio frettoloso, come faceva sempre quando non si vedevano da tanto tempo. Ogni volta quella distanza restava tra loro per qualche minuto, tenendoli più lontani l’uno dall’altra di quanto non fossero stati finora. Poi un gesto, una parola, allora l’isolamento si rompeva ed erano di nuovo insieme e ricordavano chi fossero e che si amavano. Ma quei momenti sulla banchina, i primi momenti, allora era sempre come se ancora non si conoscessero, l’imbarazzo di due che si vedono per la prima volta.
« Ciao. »
« Fatto buon viaggio? »
« Sì. »
« Andiamo? »
« Sì. »
Nadine sollevò la valigia. Jules la prese per la mano libera. Allora si guardarono negli occhi, si sorrisero e ancora l’isolamento fu vinto.

Non si vedevano da quasi tre mesi. Settantadue giorni, per essere precisi, appuntati in un’ordinata serie di crocette sul calendario, un cimitero dell’attesa. Da quando era arrivata la lettera, di giorni ne erano passati duecentoventitre. Nessuno sapeva se ce ne sarebbero stati degli altri. Una settimana, due settimane poteva darsi, ma nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto dopo. Se sarebbe tornato. Se Jules sarebbe tornato. Nadine l’avrebbe aspettato e questo era fuor di discussione – non fuori dalle loro discussioni, che sempre e sempre, al telefono e per lettera, ritornavano su quel punto, ma fuori discussione dal suo pensiero, che non ammetteva una vita senza di lui. Non l’avrebbe ammessa, forse, neanche se vi si fosse trovata costretta.
Era una romantica, una sciocchina romantica. Questo il padre di Nadine ci teneva a ribadirlo ogni volta che si mettevano a tavola, quando si aggiustava il tovagliolo dentro la camicia, e le mani di Nadine si intrecciavano con forza sopra la tovaglia per non urlare.
« E se anche va tutto bene in Belgio o dove cavolo lo mandano, che noi ci dobbiamo sorbire questo muso lungo? Ci viene tanta gente alla sartoria e un giorno ci capita magari uno che non è così poveraccio e ci fa un piacere se ti toglie da lì e ti si piglia. Magari arriva uno che ti piace e te lo scordi. C’è la festa di primavera. Sono ragazzate. Non ti pensare che lui in Olanda… Belgio dove cavolo sta, ci resti come un pero a pensare a te. Che va bene che sei una ragazza carina, ma gli uomini sono uomini e insomma,… »
Qui faceva una tossitina, per sottolineare le vaste possibilità di quella reticenza, e tuffava la forchetta nella coscia di pollo.
Sembrava, da come ne parlava il babbo, che in Belgio Jules ci andasse a cercare moglie, invece che a combattere per la « nazione ». La « nazione » era una parola che piaceva tanto a papà, da quando era rimasto zoppo a un piede per averci preso una pallottola nel ’17, per caso, per incidente, chissà perché. Ma Jules pallottole non aveva nelle mani e non le aveva nei piedi e aveva il cuore molto buono, le spalle larghe, lui sì che andava bene per la « nazione ».
E adesso, in quest’ultimo giorno di licenza prima di partire, la « nazione » lo aveva gentilmente prestato a Nadine in un giorno nebbioso nelle strade di Shrewsbury.

Il passo di Jules era diverso da come lo ricordava, più sicuro, reso quasi marziale dall’addestramento pure in quella passeggiata mano nella mano. Ma la sua mano era sempre la stessa, calda contro la sua mano fredda. Era la mano di Jules che li ricomponeva, la sua mano che disperdeva i pensieri cattivi del treno, assiepandoli ai lati delle tempie come due tende. La sua mano chiedeva scusa per il tempo che non avevano passato insieme, le prometteva spudoratamente che sarebbe restata, oliava quegli ingranaggi dell’amore che devono essere puliti tutti i giorni. Tutti i giorni, con lettere e parole di carta e parole bisbigliate dentro le cornette del telefono, ingranaggi dell’amore smontati, sistemati sui tavoli, puliti delicatamente con un fazzoletto, in attesa di essere rimessi insieme e oliati e di nuovo spinti a funzionare dalla mano di Jules, che era quella che faceva tutto il lavoro. Un amore lontano ha bisogno di più manutenzione di uno vicino, va accudito e spolverato tutti i giorni, con profusione di piccole attenzioni bugiarde e frasi che non si ripeterebbero mai ad alta voce. Bisogna dire più di quel che si pensa, pensare più di quel che si dice, bisogna amare più forte e meglio, per fare il lavoro di due anche quando si è soli. Nelle notti tristi, un amore lontano richiede un grande sforzo di immaginazione. Un amore lontano ha sempre il fianco vuoto. Fino a che la mano di Jules non è gettata come un ponte tra un fianco e l’altro e non si sente più l’attrito.

L’albergo era un edificio a due piani, con cinque camere al piano superiore, le finestre rettangolari affacciate su una modesta piazza di pietra chiara, schermate da tende arancioni. L’esterno era affrescato di bianco, c’era una veranda di legno, e l’insegna oscillava sulla sua asta in un misterioso rollio. Nadine si sentì stringere più forte la mano, guardò in su. Il sorriso di Jules era teso, un po’ balordo.
« Su, dai » disse lei.                                                                  
Quando entrarono, un pendaglio di campanelle scintillò sopra le loro teste, sparpagliando nell’atrio un suono frivolo. Una donna vecchia e grossa, coi seni ingombranti come colline e i fianchi larghi di tanti figli, prese il registro da sotto il bancone. Jules bisbigliò il suo nome. La signora gli chiese di ripeterlo. Lo ripeté, appena più distinto, e appose una firma illeggibile in una casella bianca. Nadine non staccava gli occhi dalla donna, chiedendosi se avrebbe ricambiato il suo sguardo. Quando lo fece, fu come avere uno scandaglio giù nella pancia. Quella donna, un giorno, si era sentita come si sentiva lei, e non un giorno solo, ma tanti. Sapeva cosa c’era da perdere, cosa andava smarrito, cosa si guadagnava in quel cambio tanto straordinario. In quello sguardo a Nadine pareva di vedere tutto, il ricordo, la paura, la solidarietà, il rimpianto, la pietà, la condanna, tutta una storia di donna che non avrebbe mai conosciuto, ma che le veniva tacitamente offerta e raccontata. Si sentiva meno sola, più sola.
Una chiave poggiò sul palmo aperto di Jules, che la guardò.
« Andiamo? » disse.
Dietro il bancone si avvitava una scalinata di legno. Il primo gradino scricchiolava. Nadine si sentiva sulla schiena gli occhi della donna. Sentiva che la spingeva avanti e intanto la riportava indietro.

Quando furono soli, nella camera, Nadine si accoccolò in un angolo accanto alla finestra. Con due dita scostò un lembo della tenda e guardò giù, verso la piazza. Un uomo dietro un carretto vendeva mele caramellate, appollaiate su bastoncini di legno come cocorite. Un’infermiera con una gonna blu camminava tenendo per mano una bambina. Un cane pisciava contro l’angolo di una casa.
Quando si voltò, Jules si toglieva la cintura dai pantaloni color cachi, di un tessuto un po’ liso. Lo guardò negli occhi, quasi lucidi nella luce lattiginosa che veniva dalla finestra. Jules ricambiò lo sguardo, imbarazzato, e smise di trafficare con la cintura. Si avvicinò lentamente e tenne sollevata la tenda per lei.
« Tuo padre sa che sei qui? » chiese, come dal nulla.
« Era fuori per certe commissioni. »
« E i soldi per il biglietto? »
« Sono miei. »
« A che ora devi ripartire? »
« Alle tre. »
Jules si cercò al polso l’orologio. Non ne aveva.
« È l’una e dieci » disse Nadine.
« Non abbiamo tanto tempo. »
« Abbastanza. »
Jules lasciò cadere la tendina. « Devi usare il bagno? »
« Vai prima tu. »
La carta da parati, con un motivo di roselline, era scollata da una parte, dietro il comodino accanto al letto, e si arricciava sporgendo verso l’esterno. Il letto era grande, con una trapunta gialla di stoffa ruvida, sormontato da un crocefisso nero, sottile ma minaccioso. Il pavimento era di assi di legno. In un punto la testa di un chiodo stava leggermente sollevata. Dietro la porta del bagno, Jules tirò l’acqua. Quando uscì non si guardarono negli occhi.
Nello specchio del bagno, dietro il lavabo di ceramica, Nadine cercò nel proprio viso un indizio. Doveva esserci un segno, anche uno piccolo, che annunciasse la portata del cambiamento che la aspettava. Non era un segno fisico, quanto un segno spirituale che cercava, una certa espressione negli occhi, il modo in cui si incurvava il suo sorriso. Non è questa l’espressione, diceva, che una donna ha prima di fare l’amore. Si guardò e non si piacque e pensò che non sarebbe piaciuta. Ma forse non era adesso che doveva cercare, forse non era adesso che qualcosa avrebbe dovuto manifestarsi. Forse più tardi, dopo, guardandosi allo specchio non si sarebbe riconosciuta. Fece scorrere l’acqua, si sciacquò il viso dalla foschia del viaggio e strofinò l’asciugamano contro le guance, che subito si arrossarono. Al riflesso nello specchio mormorò un silenzioso arrivederci.
Jules era nel letto con le coperte fino al mento e fissava il soffitto. A Nadine si strinse il cuore a vederlo così. Stare nel letto a quell’ora le parve buffo, non riusciva a spiegarlo altrimenti. La camera che non conosceva, il letto così grande e quella piazza fuori in cui non c’era niente che le corrispondesse… solo Jules, il suo Jules, così rannicchiato zitto sotto le coperte. Si sentiva felice e vagamente ammalata.
Camminò verso il letto e toccò la trapunta con una mano, tastandone la consistenza come faceva al negozio. Tutto fu un po’ più pauroso, più vero. Si sedette sul bordo del letto, voltata verso la parete, e in fretta sbottonò la giacchetta, la gonna. Fece una pallina coi collant. Si chiese se Jules la guardava e, se la guardava, che cosa pensava di lei che faceva una pallina coi collant e lasciava i suoi vestiti così, tutti spiegazzati per terra, accanto al letto. Ma doveva capire, Jules, che non poteva muoversi, non poteva muoversi perché avrebbe attirato la sua attenzione, perché così facendo si sarebbe esposta di più al suo sguardo, che insieme desiderava e che scansava, che sentiva come un complimento e come offesa. E un secondo stare con lui in quella stanza le sembrava bellissimo, il secondo dopo si sentiva morire. Si lisciò la canottiera e la sottoveste e, in un’unica mossa fluida, senza guardarlo, si infilò sotto la coperta. Con gli occhi chiusi, per un istante, sentì come se fosse suo padre, quando le parlava a tavola col bavaglino al collo – gli uomini sono uomini. Lo sentì che si muoveva al suo fianco, dall’altra parte del letto. Si chiese che movimenti faceva.

Più tardi, carezzandole la schiena, lui disse che non era importante. Nadine alzò la testa dai suoi singhiozzi e pianse più forte contro la sua spalla, affondandoci dentro col naso. Le sue gambe, i suoi seni, il suo corpo chiedeva scusa a contatto col corpo di lui. Jules ripeteva che non era importante, le carezzava dolcemente la testa, oliava e risistemava per lei gli ingranaggi del loro amore.
Non era importante, certo, che non avessero saputo fare l’amore. Chissà quanti altri avevano dormito in quella camera, tra quelle lenzuola, e non avevano saputo fare l’amore, quanti altri a cui il tempo aveva insegnato, riflessi che rispondevano giusto all’interrogatorio dello specchio. Ma Jules e Nadine - quella era l’ultima volta che si vedevano. 

Di Chiara Pagliochini

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