Ora siamo qui a aspettare una
risposta. Ci sarà bene in qualche istituto magistrale qualcuno che ci scriverà:
« Cari ragazzi,
non tutti i professori sono come
quella signora. Non siate razzisti anche voi.
Anche se non sono d’accordo su tutto
quello che dite, so che la nostra scuola non va. Solo una scuola perfetta può
permettersi di rifiutare la gente nuova e le culture diverse. E la scuola
perfetta non esiste. Non lo è né la nostra né la vostra.
Comunque quelli di voi che vogliono
essere maestri venite a dar gli esami quaggiù. Ho un gruppo di colleghi pronti
a chiudere due occhi per voi.
A pedagogia vi chiederemo solo di
Gianni. A italiano di raccontarci come avete fatto a scrivere questa bella
lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A geografia
la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono
al piano. A scienze ci parlerete dei sormenti e ci direte il nome dell’albero
che fa le ciliegie ».
Aspettiamo questa lettera. Abbiamo fiducia
che arriverà.
Il nostro indirizzo è: Scuola di
Barbiana Vicchio Mugello (Firenze).
Nel 1954, prima
che vi arrivasse Don Lorenzo Milani, Barbiana non era che un villaggio di poche case, sperduto
sulle colline del Mugello. Non ci si arrivava per caso: non c’era neanche la
strada. Don Milani, in effetti, ci arrivò “per punizione”: le sue simpatie
operaie e le idee non proprio ortodosse non andavano a genio al cardinale di
Firenze. Nei 13 anni che seguirono, Don Milani mise in piedi l’esperienza didattica
più significativa che la storia dell’educazione italiana ricordi.
Per i banchi
della scuola di Barbiana (due stanze della canonica più due di officina)
passarono i ragazzi scacciati dalla scuola tradizionale, figli di contadini e
operai, poveri, semi-analfabeti, dunque (secondo un’analogia della pedagogia
dell’epoca) “cretini”.
La scuola era
aperta 365 giorni l’anno (366 negli anni bisestili), dalle 8 del mattino alle 7
e mezzo di sera.
Nel 1963 vi si
contavano 29 alunni e 23 maestri, perché quasi tutti gli alunni erano maestri a
loro volta.
Se anche oggi questi
dati ci appaiono singolari, figuriamoci come dovevano apparire all’epoca. L’esperienza
educativa di Barbiana suscitò sconcerto e fu all’origine di un vasto dibattito,
destinato a cambiare (purtroppo non del tutto e non per sempre) la scuola
italiana. Manifesto del cambiamento richiesto alla scuola tradizionale fu
proprio Lettera a una professoressa,
scritto dagli allievi della scuola insieme a Don Milani e pubblicato nel 1967, proprio
l’anno in cui Don Milani morì.
Il testo, nella
forma di una lettera a un’ipotetica professoressa, colpevole di aver bocciato l’alunno-autore,
è una durissima accusa alla scuola dell’epoca e, non nascondiamocelo, alla
scuola di oggi. Se le idee espresse con tanta severità, in uno stile limpido e
vigoroso, possono oggi apparirci naïf
(almeno in alcuni passaggi), non possiamo ignorare quanto invece siano ancora
profondamente e dolorosamente attuali. Nella mente del lettore, l’ideale dei
ragazzi di Barbiana appare tutt’oggi una bellissima utopia. Ci fu davvero una
scuola così? C’è ancora una scuola così? Una scuola senza voti né pagelle,
senza interrogazioni né programmi che puzzano di vecchio. Una scuola dove si
legge il giornale, si fa scrittura creativa, si impara a insegnare, si studiano
le lingue straniere per comunicare con gli altri (e non per parlare
speditamente dei castelli della Loira). È possibile imparare a far scuola così,
portare questa scuola nella scuola che conosciamo?
Non so rispondere
a queste domande. Non so immaginare la scuola di domani. Ma so che saremo noi a
farla, noi come maestri, noi come allievi. E so che questo testo ci fa toccare
con mano cosa siano l’amore per lo studio e l’amore per l’insegnamento. Per questo
non possiamo non leggerlo e poi lamentarci se le cose non vanno.
Per saperne di più:
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