« Ti abbiamo riacciuffata per i capelli », è la
seconda cosa che mi ha detto mio padre, quando mi sono svegliata nel letto
dell’ospedale. La prima, « Penelope », il mio nome, pronunciato piano, più come una madre che
come un padre.
Intanto, il mio corpo riprendeva coscienza di sé. Avevo un
tubicino infilato nella narice destra. Papà mi ha fatto segno di non toccarlo:
era fissato al naso con un cerotto. Nell’altra estremità del sondino gocciolava
del liquido da una sacca sospesa a un trespolo. La stanza era bianca, quadrata:
a destra e a sinistra, come due ladroni, altre persone giacevano in altri
letti. Avevo vergogna di guardarle, ma avvertivo la loro presenza e quella di
molteplici altri che si affaccendavano intorno a quei letti. Davanti al mio,
solo mio padre, nei cui occhi scuri e fissi cercavo un appiglio. La sua mano ha
trovato la mia sotto il lenzuolo di cotone; le nostre dita si sono strette. Mi
è sembrato un gesto antico, a cui non ero più abituata. Mi sono sentita come il
relitto di un’altra epoca, naufragata tra quelle lenzuola per uno scherzo del
tempo. E forse era proprio così.
Adesso, anche l’ospedale è un ricordo, uno di quei ricordi che la
psicologa mi incoraggia a trascrivere « con metodo e onestà ». Ma che onestà ci
può mai essere nel racconto della propria vita? Eppure, secondo lei,
ricostruire la catena di azioni e di pensieri che mi hanno portata in quel
letto d’ospedale può servire. Alla comprensione, se non all’accettazione del
mio stato. Alla rassegnazione, io credo. Mi devo rassegnare alla vita.
« Dovrebbe guardare alla sua vita come se fosse una storia. Ecco,
lei è un personaggio di questa storia. Insieme a lei, tanti personaggi vi
compaiono, personaggi il cui cammino si è incrociato e si incrocerà col suo in
variabili impreviste. Se lei potesse guardare alla sua vita come a una storia,
capirebbe che lì dentro ha un ruolo. In una storia non si danno personaggi
inutili. Lei non è inutile, Penelope. Nessuna delle persone della sua vita lo
è. E, se potesse pensare al ruolo che certe persone della sua vita hanno avuto
per lei, forse capirebbe che ruolo ha avuto lei per loro. Che ruolo potrà ancora
avere ».
Così, la prima storia che voglio inseguire è quella di mia nonna. L’ultimo
ricordo che ho di lei è una mano grinzosa e sottile appoggiata alla carrozzina
di mia sorella, nata da qualche giorno. È il 1995: la nonna sarebbe morta
qualche mese più tardi. Morì con una certa grazia, una certa noncuranza. Un
pomeriggio, appena tornata da scuola, mi dissero che era morta. Così, riversa
sul pavimento della sua casa. Fu un dolore piccolo, com’era piccolo il mio
cuore, o forse è il tempo che l’ha reso così marginale. Di lei ricordo il viso
rugoso, gli occhi piccoli e infossati e un sorriso che le si apriva ai lati
della bocca formando due fossette curiose. Abitava in campagna, insieme a mio
nonno, nel piccolo paese umbro in cui trascorrevo le vacanze. Sono tanti anni
che non ci vado – non credo tornerò – ma suppongo non sia cambiato molto. Torre
Lorenzetta, si chiama: una manciata di case appollaiate su una collina. Intorno
prati, campi coltivati, boschi. Tra un campo e l’altro sorgevano baracche con
pochi attrezzi: una vanga, dei sacchi, una motozappa. Erano costruzioni di
mattoni o di tufo, tenute insieme dalla calce viva, con una copertura di tegole
o ancora di pannelli di eternìt. Ogni
giorno, per tutta l’estate, un vecchio col cappello stinto accendeva un falò
nella sua parte di campo, per bruciare stoppie o chissà che carcasse. Sul
paesaggio si stendeva una cortina di fumo così familiare ai miei occhi da non
infastidirmi più di una lente. Ed è attraverso questa lente che osservo la mia
infanzia e i suoi numi tutelari: i miei nonni.
La nonna era una donna fiera, caparbia. Alla
morte del padre aveva ereditato un piccolo podere, sul quale aveva edificato il
suo impero: un allevamento di maiali. Una volta la settimana, mentre il nonno
curava l’orto e la vigna, lei portava i maiali al mercato, per venderli. Me la
vedo davanti, in coda a una processione di suini recalcitranti, che mena colpi
col bastone. Al tempo della mia nascita, l’allevamento era già un capitolo
chiuso della sua vita, ma fu sempre aperto per me nei suoi racconti. In
passato, raccontava, i maiali si macellavano tutti lo stesso giorno, in un
angolo della piazza del paese; li si sgozzava uno dopo l’altro, e il sangue
defluiva giù dalla collina, usando la strada che digradava verso i campi come
il letto di un fiume.
Il suo racconto più bello parlava di quando,
durante la guerra, era andata a cercare mio nonno, che era partito nel ’41
lasciandola con due figli piccoli, i miei zii. Lettere ne riceveva di rado, e
vaghe; alcune avevano grossi passaggi cancellati in nero dagli uomini della
censura. Nell’inverno del ’43 il nonno si trovava in Grecia ed era stato preso
prigioniero dagli inglesi. « Penso sempre a te in quest’isola dove si spala la
nebbia », scriveva. Secondo un detto locale, « l’isola dove si spala la nebbia
» è Corfù: ma questo i signori della censura non potevano saperlo, e non
censurarono. Passarono i mesi e ancora nell’estate del ’45 non c’erano novità.
Anzi, il nonno aveva smesso di scrivere. Angosciata, nonna decise di andare a
cercarlo. Dalla fattucchiera del paese.
La fattucchiera si chiamava Atina e abitava in
una catapecchia ai piedi del colle, vicino alle fontane. Era agosto inoltrato e
l’aria era tutta un gracidare di rane e frenesia di cicale. Quando smettevano
di frinire, sembrava che qualcuno avesse spento il giorno e ti saliva la sudarella.
Atina era nell’aia, seduta su un ceppo, e intrecciava un cesto di vimini. Era
una donna alta e secca, con una gran massa di capelli grigi, intricati, che la facevano
sembrare un roveto. Mia nonna la salutò e scoperchiò il cestino con le vivande
che aveva portato in dono. Dentro c’erano una bottiglia di vino, una di olio,
cinque uova e un piatto di poltriccette,
succulente frittelle di fiori di zucca. Atina approvò con un cenno del capo.
« Ti devo togliere il malocchio? », domandò.
« No, non vengo per questo ».
« Ma il malocchio ce l’hai? »
« Come faccio a saperlo? »
« Allora vieni dentro che ci guardiamo ».
La nonna la seguì oltre la porta sgangherata: la
casetta si teneva su per miracolo. Alzando la testa, vide che mancavano delle
tegole e la trave centrale era infiocchettata di ragnatele. In un angolo, proprio
sotto il tetto, aveva fatto il nido una rondine: il pigolio dei rondinotti era
stridulo, quasi assordante. Atina le indicò una sedia malferma, poi prese da
una mensola un piatto fondo, miracolosamente illeso. Vi versò dell’acqua da una
brocca, fino al bordo, e lo appoggiò sul tavolo, spingendolo fin sotto il naso
della nonna.
« Marianna », disse e, allungandosi verso di lei,
le fece tre segni di croce davanti agli occhi. Nonna li socchiuse, per non
doverla guardare da così vicino, e la udì mormorare parole sconnesse. Poi Atina
si allontanò e, toccando il bordo del piatto con la mano sinistra, ripeté con
la destra i tre segni di croce, stavolta sulla sua fronte, mormorando le
stesse, oscure parole. Quindi prese dal cesto dei viveri la bottiglia d’olio,
la aprì e ne versò nell’acqua cinque gocce. Col fiato sospeso, nonna osservò
quello stillicidio silenzioso: le gocce cadevano nell’acqua e vi restavano come
imprigionate, galleggiando sulla superficie. Atina le appuntò in faccia uno sguardo
insoddisfatto:
« Niente malocchio », disse.
« Non ero venuta per questo », ripeté la nonna.
« Potevi ben averlo ».
« Nessuno mi vuole male ».
« Dicono tutti così… Perché sei venuta? »
« Per Antonio. È sei mesi che non ricevo la
posta. Magari tu riesci a vedere dove sta ».
« Certo che ci riesco. Per chi mi hai presa? »,
sbottò Atina, alzandosi. Prese il piatto e lo svuotò dell’acqua attraverso una
finestrella, poi ne versò di nuova. Nonna osservava i suoi gesti, chiedendosi
che cosa avrebbe architettato stavolta.
« Va’ fuori », disse quella, « E raccoglimi da
terra tre pietruzze. Una rotonda, una quadrata e una triangolare ».
Nonna fece come le veniva detto e ispezionò
l’aia fino a che non ebbe trovato delle forme soddisfacenti. Quindi rientrò e le
depose nel palmo aperto della strega, che annuì con compiacenza.
« Puoi farmi solo tre domande », spiegò, « Ogni
sasso è una domanda. Quando cadono nell’acqua, i cerchi che si formano ci
daranno la risposta».
« L’hai già fatto altre volte? »
« Certo. Per chi mi hai presa? »
Mentre il sasso rotondo cadeva nel piatto, la
nonna chiese:
« Antonio sta bene? »
Atina spiò le onde concentriche, poi il suo viso
angustiato.
« Sta bene, benone », rispose.
Dal petto di nonna si alzò un sospiro di
sollievo. Qualcosa le si levò dallo stomaco e poté tornare a respirare.
« Dove sta? », domandò alla pietra quadrata.
« Sta in campagna », rispose Atina, « Un posto
come questo, ma col mare vicino. Si chiama Shendelli ».
« E dove si trova? »
« Questa è un’altra domanda. Devi farla
all’altro sasso ».
« Non voglio farla all’altro sasso. Volevo che
mi rispondessi tutto insieme».
« Purtroppo i cerchi mi hanno detto solo questo
».
Sbuffando, la nonna si concentrò sulla terza
domanda. Cosa voleva sapere? Cosa l’avrebbe fatta stare meglio? Mentre la terza
pietruzza colpiva la superficie dell’acqua, lo seppe:
« Cosa sta facendo? »
Atina osservò l’increspatura fino al suo morire.
Quindi alzò gli occhi ed esitò un attimo prima di rispondere.
« Allora? »
« Mangia un pollo ».
« Un pollo », ripeté la nonna, incredula.
« Mangia un pollo su una cassetta ribaltata ».
Nonna si alzò urtando il tavolo e le onde nel
piatto furono tante e turbolente che la visione di Atina si oscurò. Non avrebbe
dovuto portarle tutte quelle uova.
Un anno e mezzo dopo, quando nonno tornò dalla
guerra, ricordò che quel giorno, un anno e mezzo prima, aveva mangiato un pollo
su una cassetta ribaltata. Gliel’aveva cucinato una contadina a cui aveva
chiesto un posto dove stare. E quel pollo doveva essergli piaciuto proprio
tanto, se s’era fermato in quella fattoria per un’altra annata, nonostante la
guerra fosse finita e gli inglesi – dai quali era riuscito a scappare a nuoto,
buttandosi a mare da una barca che lo stava riportando sul continente – non
sentissero il bisogno di cercarlo. Quel che combinò mio nonno nei Balcani per
un anno e mezzo nessuno lo sa e ormai non può più raccontarlo. La nonna sapeva
che certe cose era meglio non saperle. Ma non per questo fu meno contenta che,
anche in ritardo, fosse tornato. Tant’è che quasi subito concepirono mio padre.
Ma una cosa, una cosa mitica e strana è certa: nell’agosto del 1945 mio nonno
Antonio si trovava a Shëndëlli, in Albania, e mangiava un
pollo su una cassetta ribaltata.
In una storia non si danno personaggi inutili,
dice la mia psicologa. Ma la vita non è una storia, sebbene tendiamo a
raffigurarcela come tale. Nella vita il superfluo, l’incoerente sono all’ordine
del giorno e nessuno interviene mai a sfrondarli. A meno che non decidiamo di
farlo noi. Io avevo deciso di farlo, nell’unico modo che conosco e che ci è
dato per sottrarci alla nostra pochezza. Ma mia sorella, quella sera, aveva
bisticciato col suo fidanzato, che l’aveva riportata a casa prima del previsto.
Così mi ha trovata sul letto, svenuta, con accanto il flaconcino aperto dei
sonniferi di mia madre. I miei genitori erano al cinema: ha chiamato loro, poi
l’ambulanza.
« Prometti di non farlo più », ha detto mio
padre, stringendomi la mano sotto il lenzuolo, come quando da piccola, in
spiaggia, mi allontanavo dalla sua vista. Gli ho detto quello che voleva
sentirsi dire, ma non sono sicura che sia la verità. Eppure lascio aperta la
porta, aspetto: la storia di mia nonna insegna che la verità ti arriva per vie
misteriose.
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