«La tensione fra due forze contrarie fa di noi ciò che siamo. Noi le abbiamo entrambe, mescolate nel cuore, dove si danno battaglia e mandano scintille. Non siamo solo luce, ma anche tenebra, non abbiamo solo la pace ma anche la guerra. Siamo innocenti eppure smaliziati […] E c’è una lezione che faremmo bene a imparare: il mondo si rispecchia intero in ogni fiore».
Quando un romanzo della Chevalier finisce,
qualcuno nel mondo si ritrova con la testa ciondoloni da un lato, una guancia
appoggiata al pugno chiuso, il gomito puntellato sul tavolo, a chiedersi perché
abbia intrapreso quella lettura e cosa sperava di trovarvi che invece non c’è.
Dopo aver letto due libri di questa autrice
statunitense (il primo fu Strane creature),
ho infatti l’impressione che la sua scrittura continuerà sistematicamente a
mancare l’obiettivo che io pretendo da essa, lasciandomi perplessa e
spazientita. E, se sono un po’ dura, è perché mi rattrista pensare che un
romanzo di così belle promesse come L’innocenza,
che scomoda persino il signor William Blake, finisca per non mantenerne alcuna.
Londra, fine Settecento. La famiglia Kellaway si trasferisce dal bucolico Dorsetshire alla caotica capitale inglese inseguendo un circo. Di essa fanno parte Thomas, intagliatore di sedie, sua moglie e due figli adolescenti, Jem e Maisie. Maisie si innamora di John, acrobata a cavallo, donnaiolo e figlio del proprietario del circo. Jem si innamora (ma non lo sa) di Maggie, monella londinese che nasconde un segreto. Vicini di casa dei Kellaway sono niente di meno che William Blake, poeta e incisore dalle scomode idee politiche, e la sua consorte. Il tutto è condito da una buona dose di pericolosa nebbia, pub, tagliagole, sfruttamento e prostituzione minorili, innocenza rubata, poesia…
Sembrerebbe un romanzo fantastico, neh? Ecco
perché mi arrabbio: poteva essere un romanzo storico davvero ben riuscito, se
la Chevalier non si fosse limitata ad accennare a ognuno di questi elementi
senza approfondirne alcuno (sulla questione dell’approfondimento si veda alla
voce: caratterizzazione psicologica mancata dei personaggi). Non basta la
varietà degli ingredienti per fare una buona insalata: bisogna condirla. E, a
mio avviso, qui c’è poco sale.
Persino il Blake tratteggiato dall’autrice
risulta appena abbozzato, non più che una figura trasognata, estremamente
gentile e con i Canti dell’Innocenza
sempre sulle labbra. E qui lasciate che esprima tutto il mio risentimento verso
le scelte editoriali: sono d’accordo sul fatto che i versi di Blake di cui la Chevalier
infarcisce la narrazione andassero tradotti, ma non si poteva scegliere una
traduzione graziosa, che almeno non tradisse l’irrinunciabile musicalità
dell’originale? Incontrare i Canti
dell’Innocenza e i Canti
dell’Esperienza in questa veste mi suscita un moto di spontanea repulsione.
Vi sfido a confrontare (rigorosamente con lettura ad alta voce):
Io mi
aggiro per ogni strada urbana,
dell’urbano
Tamigi lungo il corso,
e
impressi in ogni volto segni incontro,
segni
di sofferenza e abbattimento.
In ogni
grido di qualunque Uomo,
nel
pianto di paura d’ogni Bimbo,
in ogni
voce e proibizione avverto
le
manette forgiate dalla mente.
Con:
I wander thro’ each charter’d street,
Near where the charter’d Thames does flow.
And mark in every face I meet
Marks of weakness, marks of woe.
In every cry of every Man,
In every Infants cry of fear,
In every voice: in every ban,
The mind-forg’d manacles I hear…
Tutta questa filippica e alla fine hai dato ben
3 stelline?, vi starete chiedendo. Certo, perché L’innocenza non è un brutto romanzo. Solo, secondo me non è
abbastanza bello. È in queste sfumature che si annida il risentimento del
lettore.
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