sabato 19 settembre 2015

L'innocenza, Tracy Chevalier

«La tensione fra due forze contrarie fa di noi ciò che siamo. Noi le abbiamo entrambe, mescolate nel cuore, dove si danno battaglia e mandano scintille. Non siamo solo luce, ma anche tenebra, non abbiamo solo la pace ma anche la guerra. Siamo innocenti eppure smaliziati […] E c’è una lezione che faremmo bene a imparare: il mondo si rispecchia intero in ogni fiore».


Quando un romanzo della Chevalier finisce, qualcuno nel mondo si ritrova con la testa ciondoloni da un lato, una guancia appoggiata al pugno chiuso, il gomito puntellato sul tavolo, a chiedersi perché abbia intrapreso quella lettura e cosa sperava di trovarvi che invece non c’è.
Dopo aver letto due libri di questa autrice statunitense (il primo fu Strane creature), ho infatti l’impressione che la sua scrittura continuerà sistematicamente a mancare l’obiettivo che io pretendo da essa, lasciandomi perplessa e spazientita. E, se sono un po’ dura, è perché mi rattrista pensare che un romanzo di così belle promesse come L’innocenza, che scomoda persino il signor William Blake, finisca per non mantenerne alcuna.
Londra, fine Settecento. La famiglia Kellaway si trasferisce dal bucolico Dorsetshire alla caotica capitale inglese inseguendo un circo. Di essa fanno parte Thomas, intagliatore di sedie, sua moglie e due figli adolescenti, Jem e Maisie. Maisie si innamora di John, acrobata a cavallo, donnaiolo e figlio del proprietario del circo. Jem si innamora (ma non lo sa) di Maggie, monella londinese che nasconde un segreto. Vicini di casa dei Kellaway sono niente di meno che William Blake, poeta e incisore dalle scomode idee politiche, e la sua consorte. Il tutto è condito da una buona dose di pericolosa nebbia, pub, tagliagole, sfruttamento e prostituzione minorili, innocenza rubata, poesia…

Sembrerebbe un romanzo fantastico, neh? Ecco perché mi arrabbio: poteva essere un romanzo storico davvero ben riuscito, se la Chevalier non si fosse limitata ad accennare a ognuno di questi elementi senza approfondirne alcuno (sulla questione dell’approfondimento si veda alla voce: caratterizzazione psicologica mancata dei personaggi). Non basta la varietà degli ingredienti per fare una buona insalata: bisogna condirla. E, a mio avviso, qui c’è poco sale.
Persino il Blake tratteggiato dall’autrice risulta appena abbozzato, non più che una figura trasognata, estremamente gentile e con i Canti dell’Innocenza sempre sulle labbra. E qui lasciate che esprima tutto il mio risentimento verso le scelte editoriali: sono d’accordo sul fatto che i versi di Blake di cui la Chevalier infarcisce la narrazione andassero tradotti, ma non si poteva scegliere una traduzione graziosa, che almeno non tradisse l’irrinunciabile musicalità dell’originale? Incontrare i Canti dell’Innocenza e i Canti dell’Esperienza in questa veste mi suscita un moto di spontanea repulsione. Vi sfido a confrontare (rigorosamente con lettura ad alta voce):

Io mi aggiro per ogni strada urbana,
dell’urbano Tamigi lungo il corso,
e impressi in ogni volto segni incontro,
segni di sofferenza e abbattimento.
In ogni grido di qualunque Uomo,
nel pianto di paura d’ogni Bimbo,
in ogni voce e proibizione avverto
le manette forgiate dalla mente. 

Con:
I wander thro’ each charter’d street,
Near where the charter’d Thames does flow.
And mark in every face I meet
Marks of weakness, marks of woe.
In every cry of every Man,
In every Infants cry of fear,
In every voice: in every ban,
The mind-forg’d manacles I hear…

Tutta questa filippica e alla fine hai dato ben 3 stelline?, vi starete chiedendo. Certo, perché L’innocenza non è un brutto romanzo. Solo, secondo me non è abbastanza bello. È in queste sfumature che si annida il risentimento del lettore. 


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