«Le
storie sono fra tutte le cose le più selvagge, tuonò il mostro. Le storie
inseguono, predano e mordono».
A un paio di settimane di distanza dal termine di
questa lettura, mi rammarico di non aver scritto un rigo di commento. In
realtà, questo romanzo di Patrick Ness merita più di un apprezzamento positivo.
Innanzitutto per la delicatezza mai banale con cui affronta il tema della
malattia di una persona cara, con grande sincerità e senza l’urgenza
melodrammatica di trasformare il lettore in una valle di lacrime. L’ho trovata
una scelta rispettosa e onesta.
Il protagonista, Conor, sa guadagnarsi la simpatia
di chi legge, perché risulta ben delineato, complesso e, fino alla fine,
indecifrabile. Il segreto che il bambino nasconde non è poi un colpo di scena,
ma una conclusione naturale: non un fuoco d’artificio nella trama, quanto
piuttosto un fiume che sfocia lento e fangoso ad estuario. È una bella vista.
Conor affronta da qualche tempo la malattia della
madre, assistendola passo passo nelle cure. Questa assistenza e la condizione “speciale”
di lei hanno però finito per emarginarlo, incastrandolo in una bolla di “specialità”
– un velo di pietà attraverso cui tutti gli altri hanno cominciato a guardarlo,
e a evitarlo di conseguenza. A scuola, il suo unico contatto rimasto è il bullo
che lo ha preso di mira, a cui Conor si aggrappa come per avere la
rassicurazione di esistere. Tutte le notti Conor fa un incubo, ma ecco che arriva
una notte speciale: sette minuti dopo la mezzanotte, il tasso davanti casa sua
prende vita e annuncia di avere tre storie da raccontargli, in cambio di una
quarta, che sarà Conor a narrare. È qui che Ness fa del suo meglio, impedendo
che l’albero scada nello stereotipo del vecchio saggio e che le storie siano bonarie
favolette moraleggianti. Sia l’albero sia le storie raccontate possiedono un
attraente cuore nero, che rende il romanzo davvero peculiare.
Regalerei questo libro a persone che stanno
vivendo esperienze simili a quella di Conor. Credo che le parole di Ness
possano, se non lenire il dolore, almeno far sentire meno soli.
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